Intervista a Savino Pezzotta, storico sindacalista lombardo
per Fondazioni – giugno 2021
È difficile parlare di lavoro e di lavoratori in Italia e non pensare al sindacato e al ruolo che ha svolto e svolge nel nostro Paese. Abbiamo intervistato Savino Pezzotta, che è stato uno storico sindacalista del tessile lombardo e che ha guidato la Cisl nella prima metà degli anni Duemila.
Negli ultimi vent’anni il mondo del lavoro si è radicalmente trasformato. Com’è cambiato e come può ancora cambiare il sindacato?
Il sindacato è obbligato a cambiare, perché se non muta è condannato ad accentuare il declino che sta registrando in questi tempi. Per farlo, deve affrontare due grandi problemi. Il primo è la necessità di rilanciare una forma democratica al suo interno, che oggi sembra essere attenuata, perché tutto accade per cooptazione e per scelta dei gruppi dirigenti. Ciò non aiuta certamente il necessario processo di rinnovamento. Il secondo aspetto riguarda la quanto più necessaria “sburocratizzazione” del sindacato attraverso una riduzione consistente dell’apparato, senza la quale si restringerebbe ancora di più la reale partecipazione dei lavoratori alla vita sindacale. Per fare tutto questo, a mio avviso, c’è una sola strada: l’unità sindacale. Oggi, in Italia, non esistono più ragioni che legittimerebbero l’esistenza di tre sindacati confederali. Dovremmo invece stimolare la creazione di una grande confederazione unitaria dei lavoratori italiani, sul modello del sindacalismo internazionale. Si tratta di un passaggio necessario per semplificare e ringiovanire il sindacato.
Il ringiovanimento del sindacato è una questione non solo dell’apparato, ma anche degli iscritti. Come la pensa su quest’altro aspetto?
Sono convinto che il sindacato debba offrire un’immagine positiva e ideale di sé e delle sue battaglie, cosicché i giovani possano trovare ancora interessante iscriversi e impegnarsi nel mondo sindacale. In assenza di un reale cambiamento culturale, di mentalità e di visione, il sindacato rimarrà una struttura burocratica che offre servizi, ma non sarà più in grado di proporsi come una forza attiva nella società. Infatti, il declino del sindacato non è dovuto solamente al calo degli iscritti, ma al crollo del ruolo politico che il sindacalismo gioca nel Paese. Lo ha svolto nella fase di ricostruzione durante gli anni ’50, o negli anni ’60 e ’70, quando ha giocato un ruolo di democratizzazione, che ha portato allo Statuto dei lavoratori. Oggi, nell’epoca della società digitale, il sindacato deve, quindi, riacquisire la capacità di costruzione del suo ruolo e delle modalità operative, comprendendo e intercettando i nuovi bisogni della società digitale.
Lei ha scritto recentemente che il termine “utopia” viene utilizzato ultimamente con un’accezione negativa e, invece, è vitale per una società avere sogni e utopie.
Sono convinto che la società debba avere una visione, una tensione verso qualcosa che ancora non esiste. Al contrario, la nostra società ha smarrito il tema della possibilità. Ovvero, quella capacità di immaginare qualcosa di diverso: io non so cosa sarà, ma mantengo la tensione verso un mondo diverso e lotto affinché si realizzi. Questo è il ruolo del sindacato: mantenere viva l’utopia e la tensione al cambiamento. Solo così, alimentando una visione autonoma, il sindacato può continuare a influenzare la politica.
Il lavoro è cambiato, ma ci sono ancora i lavoratori e le loro rivendicazioni, perché allora il sindacato è in crisi?
Il mercato del lavoro in Italia sta vivendo grandissime trasformazioni. Oggi il lavoro è frammentato, parcellizzato, precarizzato e, di conseguenza, tra i lavoratori sono cresciute le soggettività a scapito della collettività. Questo rende molto più complicato il lavoro del sindacato. Oggi, occorre acquisire una nuova capacità attrattiva in grado richiamare le miriadi di lavoratori individuali così da unirli in un progetto condiviso. Ed è ancora possibile, anche oggi, perchè nel mondo del lavoro è connaturata una certa “solidarietà spontanea” tra i lavoratori che condividono le stesse mansioni. Dobbiamo ricreare questo spirito di amicizia e di empatia che ci lega l’uno all’altro per la conquista dei diritti.
Cosa pensa della partecipazione dei lavoratori nella gestione delle aziende?
Mi trova assolutamente favorevole. Spiego il perché. Secondo me, c’è bisogno di una nuova concettualizzazione del lavoro, è stato un errore pensare che ci fosse una diretta correlazione tra lavoro, diritti e salario. Questa correlazione non deve essere più data per scontata. Bisogna di nuovo affermare che il lavoro non è solo una questione di salario, quindi non deve avere un riconoscimento solo in termini economici. C’è anche una questione di potere nel lavoro, anzi, di redistribuzione del potere. Io credo che sia necessario ridurre il potere degli azionisti, per aumentare quello dei lavoratori, perché sono coloro che apportano alla dimensione economica il valore aggiunto, il “di più” che serve alle imprese. Si dovrebbero diffondere largamente nuove forme di democrazia economica, in modo che il lavoratore, soprattutto nelle grandi imprese, diventi il protagonista nei consigli di amministrazione e possa esprimersi nelle scelte strategiche e nella gestione del lavoro e dei lavoratori. Questo permetterà di democratizzare il capitalismo. Questo deve fare il sindacato!
Sindacati e corpi intermedi hanno svolto un ruolo importantissimo lungo tutto il secondo dopoguerra, come presidi di coesione sociale. Oggi tutto questo sembra molto indebolito. Cosa ne pensa?
Attenzione: qui ne va della democrazia in Italia! Lo scriveva già Tocqueville nell’Ottocento: la democrazia declina quando i corpi intermedi non sono più al centro della vita della società. Per il nostro Paese è importantissimo avere un sindacato e una società civile mobilitante, che siano portatori di un costante stimolo al cambiamento, che spronino la politica a progredire.
Recentemente ha scritto che il tempo del lavoro andrebbe riformato tenendo presente l’esigenza diffusa dell’assistere e dell’essere assistiti. Ci spiega il suo pensiero?
Io credo che sia arrivato il momento di attuare una riduzione dell’orario di lavoro, che si concili con la vita delle persone e il loro “bisogno di cura”. Una società come la nostra, prettamente popolata da anziani, ha infatti la necessità di un’assistenza non solo pubblica e “burocratica”, ma di un’assistenza umana, che esiste esclusivamente all’interno di una dimensione di parentela o di amicizia. Sono convinto che l’orario lavorativo debba subire una riduzione, perché i cittadini-lavoratori possano dedicarsi alla cura dei loro anziani, dei figli, di chi ha bisogno e dell’ambiente. Penso a un part time generalizzato che permetta di dedicare una parte della giornata al lavoro, e l’altra alla cura. L’esperienza del sindacato metalmeccanico tedesco va in questa direzione. Dobbiamo prendere anche noi questa strada.
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” proclama la Costituzione all’articolo 1. Ritiene che sia un messaggio ancora attuale?
Quello che intendevano i Padri costituenti è chiarissimo. Il lavoro non è solo produzioni di beni e servizi, ma è un’attività umana alla quale ogni cittadino è chiamato per far crescere la Repubblica. Con la radicale trasformazione digitale che stiamo vivendo, certamente le modalità di lavorare sono cambiate, ma quello che non è mutato è la chiamata di ciascuno di noi a contribuire attivamente, attraverso il lavoro, alla creazione di una ricchezza che, però, dovrebbe essere distribuita a tutti.
Da Fondazioni, giugno 2021