Intervista a Gianni Maddaloni, maestro di judo
per Fondazioni dicembre 2019
La sua lotta non finisce dove finisce il tatàmi, la sua battaglia continua anche quando toglie il judogi, anzi, fuori dalle mura della palestra è lì che la sfida diventa ancora più dura. È la storia di Gianni Maddaloni, maestro di judo riconosciuto a livello mondiale per il quale più che le medaglie e i riconoscimenti raggiunti nella lunghissima carriera sportiva, contano i successi ottenuti nell’aiutare gli altri. Classe ’56, nato a Napoli, “‘O Maè” come lo chiamano i suoi allievi, inizia a dedicarsi al judo sin dall’infanzia diventando un campione e riuscendo poi a trasmettere la sua passione anche ai figli, dei quali il più grande, Giuseppe, detto “Pino”, ha vinto l’oro nelle Olimpiadi di Sidney del 2000. Il progetto più importante della carriera di Maddaloni, tuttavia, è l’aver fondato l’associazione “Star Judo Club Napoli”: una palestra nel cuore di uno dei quartieri partenopei, spesso, suo malgrado, agli onori della cronaca: Scampia. È a qualche isolato dai palazzi tristemente conosciuti come “Le Vele” che il “Clan Maddaloni”, così ribattezzato dal fondatore, riesce a “strappare” dalla strada ogni giorno centinaia di ragazzi, immigrati, figli di detenuti, educandoli ai valori dello sport e della legalità. «Ai giovani non bisogna mentire, loro si aspettano sempre la verità ed è giusto dirgliela», inizia così la sua intervista.
Cosa si aspettano i ragazzi che vengono da lei?
I ragazzi che vengono da me hanno bisogno di verità, non vogliono essere presi in giro. Io penso che il modo corretto per relazionarsi con loro sia essere diretti, non fare chiacchiere inutili. I giovani che sono arrivati nella mia palestra da bimbi, soprattutto se provenienti da famiglie in difficoltà, malavitose o con problemi di vario genere, mi chiamano “papà”, e cosa ti aspetti da un padre? Aiuto e verità».
Cosa può offrire lo sport ai ragazzi che hanno poche possibilità di riscatto sociale e poche possibilità economiche?
Lo sport è portatore di tanti valori e di tanti significati ed è il motore per muovere diversi meccanismi. Nelle scuole primarie, per esempio, lo sport può dare ai bambini regole e valori. In quartieri come Scampia a Napoli, lo Zen a Palermo, Corviale a Roma, può rappresentare un grande sostegno alle famiglie in cui mancano i genitori e in cui per i più giovani essere assorbiti da circoli sbagliati è sin troppo facile. Lo sport è anche lotta all’emarginazione, soprattutto per i ragazzi diversamente abili perché quando si varca la soglia di una palestra (per esempio la mia palestra) si diventa uguali a tutti gli altri. Lo sport abbatte le differenze e insegna l’inclusione sociale, demolisce i pregiudizi e aggrega le persone. Per esempio, nella mia palestra ci sono tanti ragazzi immigrati che, oltre ad essere inseriti senza problemi nel gruppo, imparano “un’arte” perché di sport si può anche vivere. Quindi lo sport, se visto nella giusta dimensione, è uno strumento formidabile.
Ha trovato ostacoli nel raggiungimento dei suoi obiettivi?
Sono arrivato a Scampia da piccolo, quindi conosco le sue difficoltà. Può sembrare paradossale, ma perfino la criminalità organizzata “riconosce” il valore del mio lavoro. Ricevo spesso alcune lettere bagnate di lacrime da parte di camorristi in carcere, che mi scrivono quanto sia importante quello che faccio per i loro figli; perché quando un camorrista va all’interno di un carcere capisce tutti gli errori che ha fatto – in particolare quando gli viene dato il 41 bis – e si rende conto di aver lasciato una famiglia che rimane sola e abbandonata. Dalla politica inizialmente ho ricevuto un po’ di sostegno; ma negli ultimi anni questo è venuto meno».
Come porta avanti la sua palestra?
L’attività della palestra si sostiene grazie all’aiuto di alcuni piccoli imprenditori del territorio. Un altro grande sostegno non economico, ma altrettanto importante, lo ricevo dal sistema della Giustizia: ci sono funzionari dello Stato che hanno capito come lavoro e sono dalla mia parte.
Visto tutte queste difficoltà, ai suoi ragazzi riesce a trasmettere il messaggio di “sognare in grande” anche in un contesto così difficile?
Io due cose so fare: il judo e il sociale. Questi miei sogni li ho sempre coltivati e inseguiti e oggi mi hanno portato dove sono arrivato. Questa speranza cerco di insegnarla ai miei ragazzi, e spero che seguano gli esempi che cerco di dare loro.
C’è un “codice di comportamento” nel clan Maddaloni. Ce lo può spiegare?
Prima di tutto per entrare nel nostro gruppo bisogna rispettare i deboli, rispettare le donne, rispettare i bambini. Altro elemento fondamentale è “se hai, devi dare”, se possiedi devi condividere con gli altri se ne hai la possibilità. Se entri in palestra devi attenerti a queste regole: puoi essere figlio di un carabiniere, come figlio di un camorrista, le regole valgono per tutti e le devi seguire. Il nostro obiettivo è prima di tutto differenziare bene e male e noi cerchiamo di insegnare il bene.
La sua vita è piena di successi: qual è il momento che ricorda con più commozione?
Quattordici anni fa ero in un ristorante con mia moglie e vedemmo un bimbo, era nero, aveva due anni e girovagava da solo. Ci informammo e scoprimmo che era stato adottato da una famiglia che non lo aveva più voluto e quindi “restituito” al mittente. Dunque dissi a mia moglie: “Prendiamolo con noi”. Oggi ha 16 anni, è bellissimo ed è stato due volte campione d’Italia. Io lo amo, come tutti gli altri miei figli, e la cosa che più adoro di lui è che mi chiede sempre: “Papà come stai? Tutto bene?”. C’è qualcosa che conta più di questo?
Dalla rivista Fondazioni novembre-dicembre 2019