Editoriale di Giorgio Righetti, direttore generale Acri
per Fondazioni – giugno 2021
Panta rei, tutto si muove e nulla sta fermo. E, a questa regola, non si sottrae il lavoro. Che si trasforma e si trasformerà. Ma non scompare, né scomparirà. Siamo oggi nel pieno del dibattito sull’effetto che l’intelligenza artificiale produrrà sul lavoro, e non mancano coloro che prevedono effetti devastanti sull’occupazione, con le conseguenti ricadute sociali. Nel 1995, Jeremy Rifkin, nel suo “La fine del lavoro”, preconizzava una progressiva diminuzione del fabbisogno di manodopera a causa degli avanzamenti tecnologici, immaginandone gli effetti sulla società e sugli individui e proponendo alcuni possibili percorsi evolutivi, tra questi il fiorire del terzo settore per interventi di interesse generale.
Nel 1930, John Maynard Keynes immaginava che, a cento anni di distanza, cioè, più o meno ai nostri giorni, l’espansione della tecnologia nei paesi sviluppati avrebbe ridotto i tempi di lavoro a quindici ore alla settimana, e il nuovo problema da affrontare sarebbe diventato quello di come occupare il tempo libero, mentre “l’amore per il denaro, per il possesso del denaro, sarà… una di quelle inclinazioni a metà criminali e a metà patologiche da affidare con un brivido agli specialisti di malattie mentali”.
Nella seconda decade del 1800 esplose, in Inghilterra, l’ondata di protesta che va sotto il nome di luddismo, che rispondeva, alle minacce al lavoro insite nella meccanizzazione dell’industria, con la distruzione delle macchine. E così via, “discendendo per li rami”. Nonostante le tante previsioni sulla scomparsa del lavoro che nel corso dei secoli si sono affastellate, quello che è certo è che il lavoro non muore, sopravvive ostinatamente, con caparbietà, alle crisi e agli sconvolgimenti della storia. Perché il lavoro non si esaurisce nel reddito che esso genera. Il lavoro è molto di più. Il lavoro è cittadinanza, è il mezzo attraverso il quale si esprime l’appartenenza a una comunità, il contributo che, attraverso il fare, ciascuno apporta alla manutenzione del presente e alla costruzione del futuro. Non è un caso che la nostra Costituzione sia incardinata sul lavoro e, che all’art. 3, assegni alla Repubblica, cioè a tutti noi, il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono “… l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
È sin troppo ovvio constatare che esistano, al momento, una infinita serie di problematiche connesse al lavoro che necessitano di essere affrontate: i bassi livelli retributivi di alcune attività, gli effetti della trasformazione tecnologica sui mestieri e le competenze, il lavoro nero, lo sfruttamento dei migranti, la difesa della dignità del lavoro, la transizione da un lavoro all’altro… Questi complessi problemi necessitano di risposte, che possono tuttavia essere trovate se c’è disponibilità a rinnovare gli ammortizzatori sociali, ad accompagnare i lavoratori nelle transizioni tra lavori diversi, a tutelare i diritti delle fasce più fragili dei lavoratori. Battaglie neo-luddiste o di retroguardia, che si basano esclusivamente sulla difesa dell’esistente senza considerare l’evoluzione che la nostra società e, quindi, il lavoro stanno attraversando, o l’arrendevole constatazione della fine del lavoro non possono essere la soluzione. Il lavoro non è finito e ha ancora molto da fare.
Da Fondazioni, giugno 2021