Intervista a Federica De Lauso, sociologa, ricercatrice del servizio studi e ricerche di Caritas Italiana.
A lungo andare vivere in condizioni di povertà può avere sulle persone anche un impatto psico-sociale: modifica percezioni, pensieri e aspettative, riducendo ambizioni e sogni. Gli studi mostrano che l’indigenza cronica può arrivare a limitare la capacità di progettare il futuro, con effetti amplificati nella povertà intergenerazionale. A spiegarlo è Federica De Lauso che il fenomeno della povertà in Italia lo conosce a fondo, in quanto co-curatrice, dal 2014, del Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia di Caritas italiana. L’abbiamo intervistata.
Come viene definita la povertà assoluta oggi in Italia e in che cosa si differenzia da altre forme di povertà (relativa, educativa, energetica, abitativa…)?
In Italia, la povertà assoluta riguarda chi ha consumi inferiori a uno standard minimo indispensabile per una vita dignitosa, includendo bisogni essenziali come alimentazione, vestiario, abitazione e servizi. L’Istat la calcola considerando composizione familiare, territorio e dimensione del comune, aggiornando annualmente la soglia in base ai prezzi. Oggi coinvolge circa 5,7 milioni di persone in 2,2 milioni di famiglie e può dirsi la forma più grave, perché priva del necessario per vivere decorosamente. La povertà relativa, invece, è da intendersi come una misura di disuguaglianza: indica famiglie con consumi inferiori alla media, pur non mancando dei beni essenziali. Accanto a queste, esistono forme specifiche di povertà come la quella educativa, abitativa o energetica, spesso meno visibili ma comunque impattanti perché toccano dimensioni centrali della vita di ciascuno.
Quali sono le principali cause che spingono sempre più famiglie o individui in condizione di povertà?
La povertà di un Paese è il risultato di molteplici fattori interconnessi, che variano in base al contesto storico, geografico, sociale ed economico. Le cause possono essere di natura strutturale, economica, sociale, politica, ma anche personale e familiare. Tra chi si rivolge alla Caritas emergono situazioni ricorrenti: reddito insufficiente o assenza totale di entrate, famiglie numerose monoreddito e lavoratori poveri, per i quali anche un impiego stabile non garantisce sicurezza economica. Vi sono poi persone escluse dal mondo del lavoro per fragilità personali, età, salute o percorsi migratori complessi. Infine, eventi improvvisi come separazioni, malattie o perdita del lavoro possono generare difficoltà economiche e sociali durature, innescando circoli viziosi di povertà.
“Vivere a lungo in povertà influisce su come le persone si percepiscono: riduce speranze e possibilità di progettare il futuro”
Che conseguenze ha la povertà non solo sul piano materiale, ma anche su quello psico logico, sociale e relazionale?
Vivere in una condizione di povertà in modo prolungato e cronico ha delle ricadute psico- sociali importanti sulle persone: può infatti influenzare il loro modo di pensare e di percepire sé stessi e il proprio futuro. Molti studi sociali evidenziano come l’immersione nella povertà possa condizionare il comportamento, le aspettative e la speranza con ricadute sul piano delle ambizioni, delle aspirazioni e dei sogni. Le condizioni di indigenza, a detta degli scienziati, riducono la cosiddetta “larghezza di banda cognitiva” e con ciò la capacità di guardare avanti e progettare. Questo risulta ancora più evidente nei casi di povertà intergenerazionale per i quali gli effetti possono dirsi amplificati. La vera sfida, dunque, è aiutarle a trasformare il bisogno materiale in aspirazione. Questo, significa mettere al centro la soggettività delle persone, valorizzarne la responsabilità e fornire strumenti concreti per immaginare e costruire un futuro diverso.
Secondo la sua esperienza, in questi ultimi cinquant’anni la povertà è cambiata?
Negli ultimi decenni, la povertà in Italia ha subito una trasformazione profonda e radicale. Fino alla crisi economico-finanziaria del 2008, innescata dal crollo di Lehman Brothers, era un fenomeno stabile e marginale, che colpiva appena il 3% della popolazione, principalmente famiglie numerose, anziani, disoccupati e residenti del Mezzogiorno. Oggi, circa un residente su dieci è coinvolto, a causa di crisi globali successive: dalla crisi dei mutui e dei debiti sovrani, alla pandemia di Covid-19, fino agli effetti delle guerre internazionali su inflazione, crescita e commercio. Il profilo della povertà si è ampliato, includendo nuovi gruppi sociali come minori, occupati e residenti del Nord, rendendo il fenomeno diffuso, trasversale ed endemico, e richiedendo politiche sistemiche e innovative.
“Molti studi sociali evidenziano come l’immersione nella povertà possa condizionare il comportamento, le aspettative e la speranza con ricadute sul piano delle ambizioni, delle aspirazioni e dei sogni”
Oggi si parla sempre più di “nuove povertà”: come sono cambiate le richieste che ricevete e le risposte che siete chiamati a dare?
Se osserviamo la nostra esperienza all’interno del circuito Caritas, possiamo affermare con certezza che il profilo sociale di chi chiede aiuto è profondamente cambiato. Negli ultimi anni, abbiamo assistito a una vera e propria “normalizzazione” delle domande di aiuto, che oggi non provengono più soltanto da persone in condizioni di grave marginalità o esclusione sociale, ma anche da individui e famiglie che fino a poco tempo fa si trovavano in situazioni stabili. Questo cambiamento ha inevitabilmente comportato un’evoluzione anche nelle modalità di intervento, a partire dalla crisi del 2008. Oggi, i servizi promossi dalle Caritas diocesane e parrocchiali (circa 7mila in tutta Italia) si sono moltiplicati e diversificati, per rispondere a bisogni sempre più complessi e trasversali. Accanto ai tradizionali servizi di ascolto, mensa, distribuzione alimentare, dormitori e accoglienze, sono nati nuovi strumenti di supporto, come ad esempio: empori della solidarietà, pensati per restituire dignità e autonomia alle famiglie; progetti educativi per minori, con l’obiettivo di contrastare la povertà educativa; sportelli di orientamento al lavoro; centri di ascolto dedicati, fondamentali per l’accoglienza, l’analisi dei bisogni e l’orientamento anche verso le politiche pubbliche; servizi di assistenza legale e amministrativa; sportelli digitali, per combattere il divario digitale; corsi di lingua italiana e percorsi di formazione professionale; servizi di microcredito e supporto alla gestione economica familiare. Questa ampia rete di attività e servizi riflette un approccio integrato e personalizzato, che non si limita a rispondere nell’immediato ai bisogni materiali, ma mira a costruire percorsi reali di uscita dal la povertà, valorizzando le risorse individuali e promuovendo la “capacitazione” delle persone, ovvero la possibilità concreta di riacquistare autonomia, dignità e protagonismo.
Cosa pensa delle politiche pubbliche e degli strumenti di sostegno al reddito che sono stati attivati negli ultimi anni per contrastare la povertà?
Dal 2016 in Italia si sono succedute quattro misure nazionali di contrasto alla povertà: SIA, REI, Reddito di Cittadinanza (RdC) e, più recentemente, l’Assegno di Inclusione (ADI), ognuna con criteri e approcci differenti. Il RdC, introdotto nel 2019, è stata la prima misura universalistica e durante la pandemia ha evitato che un milione di persone scivolassero nella povertà (secondo i dati Istat), pur non coprendo l’intera popolazione in povertà assoluta. Con la riforma del 2023 e l’introduzione dell’ADI, si è abbandonato il principio dell’universalità garantendo l’accesso ai soli nuclei “non occupabili” (con figli minori, anziani, persone con disabilità), mentre gli “occupabili” seguono percorsi separati di formazione e lavoro (SFL). Questa distinzione ha portato al dimezzamento del numero di beneficiari penalizzando, in particolare, residenti del Nord, affittuari e nuclei unipersonali. Nonostante clausole per situazioni di svantaggio, i benefici restano limitati anche per iter burocratici complessi. In questo contesto, la rete Caritas continua a supportare le famiglie escluse con assistenza materiale, orientamento e accompagnamento nelle nuove pratiche.
“La vera sfida oggi è costruire politiche integrate, capaci di andare oltre il mero sostegno economico (comunque necessario) e di attivare percorsi personalizzati, che mettano al centro le persone e le aiutino a riacquisire
autonomia e dignità”
Che ruolo può svolgere oggi il Terzo settore, e in particolare Caritas?
Oggi il Terzo settore svolge un ruolo cruciale di vicinanza ai territori e alle persone, rappresentando spesso il primo presidio di ascolto, accoglienza e risposta ai bisogni. Accanto all’azione diretta, è chiamato a svolgere un’azione di advocacy, e di tutela dei diritti, stimolando le istituzioni a politiche più giuste e inclusive. Lo Statuto di Caritas Italiana, all’articolo 3, richiama esplicitamente questo compito: “stimolare l’azione delle istituzioni civili e una adeguata legislazione” che non escluda e lasci indietro gli ultimi. Questo approccio combina denuncia delle ingiustizie e proposte costruttive: creare reti, promuovere cultura e accompagnare le persone. Il Terzo settore agisce, così, come ponte tra pubblico e comunità, attivando sinergie tra cittadini, istituzioni, imprese e volontariato, promuovendo coesione, prossimità, solidarietà e una vera “cultura della corresponsabilità”.
In prospettiva futura, quali strategie ritiene più urgenti per affrontare in modo strutturale la povertà in Italia?
La vera sfida oggi è costruire politiche integrate, capaci di andare oltre il mero sostegno economico (comunque necessario) e di attivare percorsi personalizzati, che mettano al centro le persone e le aiutino a riacquisire autonomia e dignità. In questo senso, serve un maggior coordinamento tra le istituzioni pubbliche, il Terzo settore e le comunità locali, per rispondere in modo più efficace e umano alla complessità della povertà contemporanea.
Dalla rivista Fondazioni luglio-settembre 2025