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Il lavoro di cura è lavoro e non può ricadere solo sulle donne | Barbara Leda Kenny

Intervista a Barbara Leda Kenny, Senior gender expert della Fondazione Brodolini

Senior gender expert della Fondazione Brodolini, Barbara Leda Kenny si occupa di politiche di genere, è socia fondatrice di Tuba, la libreria delle donne di Roma e, dal 2017, una delle ideatrici e curatrici di inQuiete, Festival di scrittrici a Roma, nonché caporedattrice della rivista inGenere. L’abbiamo intervistata per parlare del ruolo delle donne nel lavoro di cura in Italia

Il lavoro domestico e di cura, in Italia, ancora ricade principalmente sulle donne. Perché persiste questo fenomeno?

La persistenza è culturale. In Italia vige la convinzione che il miglior luogo di cura sia la famiglia e che, nella famiglia, le persone con la capacità di prendersi cura siano le donne. Questa convinzione si riflette in un welfare spesso insufficiente o inadeguato, frutto di politiche che continuano a pensare la famiglia in termini tradizionali: non solo basate su una divisione dei ruoli, in cui gli uomini principalmente lavorano e le donne principalmente si prendono cura, ma anche basate sulla prossimità, quindi su forme di solidarietà intergenerazionale che necessitano la vicinanza geografica. Ma, soprattutto, si riflette in una economia che si basa sul lavoro invisibile e gratuito delle donne.

Quali sono le conseguenze del peso del lavoro di cura sul percorso professionale delle donne?

In Italia siamo fanalino di coda europeo per la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Abbiamo un problema di quantità, quindi relativo al numero di donne che accedono al mercato del lavoro, e di qualità, ossia a quali condizioni accedono quelle che riescono ad entrare. C’è un nesso evidente tra i due fattori. Viviamo in una cultura che considera che per le donne il lavoro sia una scelta, una possibilità, e che il loro primo luogo di realizzazione sia la casa. Eppure, questo non solo non è vero, perché le donne vogliono lavorare, ma non è nemmeno sostenibile: fare un figlio contando su un solo stipendio in molti casi non è possibile se non è compensato da altri fattori, come il vivere in famiglie allargate o avere una rendita. Ormai lo sappiamo: i figli si fanno soprattutto dove le donne lavorano e dove ci sono servizi. Anche qui torna il discorso della qualità: il precariato, le forme contrattuali che non proteggono le lavoratrici, sono tutti fattori che scoraggiano la realizzazione dei desideri riproduttivi (e a ben vedere!), visto che sono moltissime le donne che perdono o rinunciano al lavoro dopo aver fatto un figlio e sono molte quelle che pagano un prezzo altissimo in termini di carriera.

“Viviamo in una cultura che considera che per le donne il lavoro sia una scelta, una possibilità, e che il loro primo luogo di realizzazione sia la casa; eppure, questo non solo non è vero, perché le donne vogliono lavorare, ma non è nemmeno sostenibile” 

E qual è l’impatto nel Paese di questo modello, culturale ed economico, di gestione della cura?

Questo modello non funziona. La verità è che scaricare il lavoro di cura sulle donne non è efficiente ed è solo in apparenza gratuito. Ovvero: la carente partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha un costo economico in termini di PIL, e anche di innovazione e competitività. Inoltre, se guardiamo al lavoro di cura, non è per niente scontato che le donne della famiglia siano le migliori fornitrici di servizi; eppure persiste questa convinzione. Inoltre, non è cambiato molto il rapporto con il lavoro degli uomini e non è cambiato il loro rapporto con la casa. Gli uomini italiani sono gli europei che meno tempo investono nel lavoro domestico e di cura. E questo è uno dei problemi.

Quali sono gli altri problemi su questo fronte?

In Italia è in corso un processo di negazione. Ci comportiamo come se non sapessimo del fenomeno di migrazione interna per cui i giovani del Sud si trasferiscono al Centro-Nord lasciando genitori che invecchiano da soli, e diventando genitori in città in cui non possono contare sui nonni. Inoltre, non si prendono in considerazione le famiglie monogenitoriali (quelle composte da donne sole con figli a carico rappresentano l’11% delle famiglie); le famiglie ricongiunte, ossia persone che hanno avuto figli si sono separate e hanno formato nuove famiglie con altre persone (in Italia ogni 10 matrimoni ci sono 6 separazioni); il fatto che spostando in avanti l’età in cui si fanno i figli, spesso i nonni sono avanti negli anni e non reggono la fatica di prendersi cura dei nipoti; che le vacanze dei figli e le vacanze dei genitori sono pensati in funzione di un modello di famiglia che non esiste più. Oltre e dopo i figli, di cui si parla tanto, abbiamo un problema crescente con la cura delle persone anziane: sono moltissime le donne che si prendono cura di genitori non più autosufficienti. E dove non arrivano le donne, il servizio di cura si delega, spesso sempre a donne, straniere, che vengono pagate dalle famiglie per svolgere un lavoro di supplenza.

“Oltre e dopo i figli, di cui si parla tanto, abbiamo un problema crescente con la cura delle persone anziane: sono moltissime le donne che si prendono cura di genitori non più autosufficienti”

E quali sono le condizioni lavorative delle donne straniere?

Questa cultura per cui la cura è una capacità innata delle donne, fa sì che non venga considerata un vero e proprio lavoro; quindi, le famiglie, molto spesso, offrono condizioni di lavoro logoranti, con carichi di lavoro faticosi, a donne con pochi strumenti professionali e linguistici. Esiste, infatti, la “sindrome Italia”, un termine coniato in Romania per parlare del trauma subito dalle donne che hanno lavorato come badanti in Italia. Dal punto di vista del diritto del lavoro non va molto meglio: le lavoratrici del settore domestico sono escluse dai diritti come bonus o congedi, sono a tutti gli effetti lavoratrici di serie B. Sono donne che, per lavorare nel comparto domestico in Italia, spesso lasciano a casa un vuoto di cura che delegano ad altre donne della famiglia. Un effetto domino che travalica le frontiere. Anche qui contesterei il modello: una casa, una persona anziana e una badante è un sistema costoso, ma anche poco efficiente.  Per invecchiare bene servono autonomia e socialità, vanno ripensate in primo luogo le forme dell’abitare e le città, immaginando servizi di prossimità che consentano alle persone anziane di vivere a lungo ma di vivere bene.

“Se il problema è culturale bisogna che anche in Italia si faccia un passaggio da un modello tradizionale al modello “dual earner, dual carer”, che significa che in una coppia entrambi lavorano ed entrambi si prendono cura” 

Dopo aver delineato questo quadro così complesso, le chiederei: come si può contrastare questo fenomeno?

Quello che credo di aver imparato è che non basta una sola misura, serve una visione. Una visione politica di come vogliamo che vivano le persone, quale idea di donna, di famiglia, di genitorialità si vuole promuovere o, ancora più banalmente, di cui si vuole prendere atto. Se il problema è culturale bisogna che, come sta accadendo da anni in Europa, anche in Italia si faccia un passaggio da un modello tradizionale a un modello che in inglese si chiama “dual earner, dual carer”, che significa che in una coppia entrambi lavorano ed entrambi si prendono cura. In questa direzione stanno andando molti paesi con congedi di maternità e paternità paritari e con la riduzione dell’orario di lavoro per tutti. Senza parlare di altre misure come l’anticipo dell’età dell’obbligo scolastico, le vacanze estive brevi, il tempo prolungato per tutti gli ordini e gradi scolastici, i cohousing e sperimentazioni urbanistiche che facilitano la vita sociale delle persone anziane. In Italia ci sono proposte che vanno in questa direzione, ma nessuna è mai uscita dallo stato dei buoni propositi per diventare operativa. Insomma, un primo passo potrebbe essere quello di riconoscere che le famiglie sono cambiate, che di conseguenza i bisogni sono cambiati e che accompagnare questi cambiamenti con diritti, politiche, servizi potrebbe essere un modo per rendere la vita delle donne, ma direi proprio di tutti, un po’ più facile

Dalla rivista Fondazioni luglio – settembre 2024