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Il futuro è fuori | Paolo Pileri

Intervista a Paolo Pileri, professore di pianificazione e progettazione urbanistica del Politecnico di Milano

“Casa non è solo dentro ma anche, soprattutto, fuori”. Lo sostiene Paolo Pileri, professore di pianificazione e progettazione urbanistica del Politecnico di Milano. Il suo campo di ricerca è prevalentemente la pianificazione ecologica e agroforestale: “La sfida dell’abitare del futuro vede protagonisti gli esterni”. Ecco il suo punto di vista.

Cosa significa oggi “abitare”?

Ci sono ovviamente molte declinazioni dell’abitare. Premesso che la casa rimane un diritto sacrosanto che dovrebbe essere l’ossessione di ogni politica pubblica, soprattutto nei confronti dei più fragili e incapienti, la vita di tutti noi non può compiersi pienamente se limitata entro le mura, pur necessarie, di una casa. Diciamo che non possiamo accontentarci di una declinazione dell’abitare “per interni”, ma occorre uscire fuori, aprirsi a una cultura degli esterni, fuori dalle case, negli spazi pubblici della città.

Qual è la sfida dell’abitare del futuro? Quali sono le priorità a cui ripensare per costruire le città?

 Se, come ho appena detto, accettiamo la sfida degli esterni come declinazione dell’abitare, la priorità diviene il prendersi cura degli spazi pubblici – qualunque essi siano – della nostra quotidianità o della quotidianità pubblica da riconquistare. Le nostre strade, le nostre piazze, i sagrati, gli slarghi, i viali sono diventati un accumulo di piccoli problemi come pavimentazioni diverse e sconnesse, oggetti piccoli e grandi, segnaletiche e pubblicità, pali e installazioni ma, soprattutto, auto, auto e ancora auto. Tutto questo rende lo spazio urbano il più complesso tra i problemi di riqualificazione ambientale delle nostre città. Gli ambienti pubblici sono divenuti disagevoli e perfino ostili: i pedoni devono farsi strada tra le auto e il loro percorsi sono sempre più ristretti. Spazi per il gioco o per soffermarsi a parlare sono rari. Ma più di ogni cosa, la gradevolezza degli spazi pubblici è ai minimi, soprattutto nelle aree meno centrali delle città. Mancanza di cura, occupazione degli spazi da parte delle auto e scarsa gradevolezza non aiutano le persone a sentirsi abitanti di quegli spazi, ma solo unità che si spostano e in fretta. Si sono degradate quelle caratteristiche dell’urbanità degli esterni sulle quali poggiare un’idea di abitare che sia un tutt’uno con l’intimità delle proprie case. Fuori da esse ci si sente sempre meno a proprio agio, soprattutto i più fragili: bambini, anziani e persone con disabilità. La sfida del futuro è destinare attenzioni e risorse a un grande progetto di rigenerazione della città pubblica perchè diventi sempre più un luogo da abitare e non solo dove muoversi da un punto A a uno B o svolgere attività di consumo.

“Non possiamo accontentarci di una declinazione dell’abitare “per interni”, ma occorre uscire fuori, aprirsi a una cultura degli esterni, fuori dalle case, negli spazi pubblici della città” 

Nella città del futuro la “lentezza” che ruolo ha?

La lentezza può e deve avere un ruolo importante perché aiuta le persone a essere cittadini dei luoghi dove si incontrano. La lentezza aiuta a memorizzare i luoghi e le esperienze, aiuta ad associare la propria identità a quella dei luoghi che si attraversano. Per sprigionare il suo potere educativo sulle persone, la lentezza ha necessità di un adeguato disegno degli spazi pubblici urbani che sia di qualità e in grado di offrire al camminante tutto il comfort e la gradevolezza possibile.

Pianificazione urbana: qual è la situazione italiana? Lei propone di “ripensarla” secondo quali linee direttrici?

Tra le priorità più urgenti della pianificazione urbana oggi è innegabile il rispetto massimo per ogni forma di natura dentro e fuori la città. La città deve assumere le regole della natura e non più il contrario. L’espansione delle città oggi deve fermarsi perché occorre smettere di consumare suolo. Ma anche al suo interno, nelle porosità libere rimaste, la pianificazione non può cementificare le aree intercluse, preziose per ridare spazio alla natura in città e per impostare un progetto di fruizione degli spazi verdi che sia migliore e soprattutto aiuti i cittadini a spendere più tempo all’esterno, a muoversi senza auto, a imparare cosa è natura.

“La sfida del futuro è destinare attenzioni e risorse a un grande progetto di rigenerazione della città pubblica perché diventi sempre più un luogo da abitare e non solo dove muoversi”

“Suolo italiano, terra di caccia per il cemento facile”, lo scrive in un articolo del 27 ottobre in Altreconomia. Cosa intende?

Purtroppo i dati sul consumo di suolo di questi ultimi anni ci dicono che le città continuano a mangiare suolo, strappandolo alla agricoltura e alla natura. E questo nonostante alcune regioni si siano date norme contro il consumo di suolo. Norme che, a conti fatti, non funzionano. Il suolo è l’ecosistema più fragile che abbiamo e da cui dipendiamo al 100%, ma non ci è così chiaro, al punto da rispettarlo e non coprirlo con una coltre di cemento. La rendita fondiaria e quella immobiliare rimangono ancora due leve che superano qualsiasi attenzione verso suolo e natura.

Nel suo libro “Urbanistica fragile” scrive che dobbiamo “tornare ad abitare i luoghi più fragili”. Quali sono i luoghi più fragili e come abitarli?

I luoghi più fragili sono quelli che abbandoniamo. Possono essere nelle aree montane o rurali come appena fuori dalle città. L’imperativo commerciale da un lato, e quello della mobilità veloce e veicolare dall’altro, hanno imposto una sorta di selezione degli spazi. Quelli commerciali e funzionali alla mobilità veicolare sono legittimati entro una narrazione urbana positiva, gli altri rimangono indietro nella considerazione sociale. Passeggiare ai bordi della città, lungo le poche strade di campagna periurbana, è qualcosa di poco praticato e senza dubbio quasi mai proposto dalle istituzioni pubbliche e dai loro leader. Abbiamo bisogno di occuparci degli spazi dimenticati dove depositare senso e semplici progettualità fatte di tracce per camminare o pedalare, cura degli arredi, spazi per l’aggregazione e cure ecologiche per far sì che le persone tornino a frequentarle spinti da convinzione e piacere.

“Abbiamo bisogno di occuparci degli spazi dimenticati dove depositare senso e semplici progettualità fatte di tracce per camminare o pedalare, cura degli arredi, spazi per l’aggregazione e cure ecologiche per far sì che le persone tornino a frequentarle spinti da convinzione e piacere”

Nel libro “Piazze scolastiche. Reinventare il dialogo tra scuola e città” scrive di una virtuosa rigenerazione urbana condotta a partire dal nodo “scuola-città” e dall’importanza proprio delle “piazze”. Ci può spiegare cosa intende?

Per i nostri ragazzi la scuola è un edificio indelebile nella loro esperienza di vita e crescita. Al pari lo è anche lo spazio urbano davanti all’ingresso della scuola, dove gli studenti e le studentesse si soffermano per parlare, scherzare e conoscersi. Spesso è il primo spazio dove i ragazzi sperimentano l’inizio della loro autonomia. Ma come sono questi spazi davanti agli ingressi scolastici che abbiamo chiamato “piazze scolastiche”? Sono spazi di qualità? O sono deturpati dal disordine di una scena piena di oggetti fuori luogo o degradati o, peggio, di uno spazio che con il tempo è andato riducendosi per far posto ad auto o alla viabilità urbana? Spesso i nostri studenti escono addirittura in un vero e proprio parcheggio che non è certo un luogo gradevole dove passare il tempo, giocare e costruirsi un buon ricordo del loro tempo migliore. Queste piazze scolastiche potrebbero e dovrebbero divenire oggetto di una sistematica progettazione così da qualificarle e restituirle all’uso prioritario che esse devono avare: essere il luogo ideale per la socialità dei ragazzi.

Dalla rivista Fondazioni gennaio – marzo 2024