Da alcuni anni si sta parlando così tanto, e spesso a sproposito, di trasformazione digitale da averla fatta divenire quasi un’ovvietà e averla privata del suo fortissimo contenuto “rivoluzionario”. Ciò in parte dipende dal fatto che il flusso di innovazione che la digitalizzazione introduce è senza soluzione di continuità e completamente immerso nella quotidianità di ciascuno di noi da farne perdere la percezione. In realtà, la digitalizzazione rappresenta un completo cambio di paradigma, come lo è stato la stampa a caratteri mobili, il motore a scoppio, il web, solo per citare alcune delle innovazioni che hanno rivoluzionato la storia. Modifica non solo la modalità con cui si fanno le cose, ma introduce nuove opportunità precedentemente impensabili. Quello in atto è, infatti, un tipico processo di distruzione creatrice: si mette in soffitta il passato e si crea il futuro attraverso le trasformazioni del presente. La stampa a caratteri mobili produsse la progressiva inutilità degli scriptoria all’interno dei monasteri, il motore a scoppio determinò la scomparsa delle stazioni di posta, il web ha reso obsoleti così tanti lavori che è difficile rammentarli tutti. Ma, al tempo stesso, tutte hanno determinato l’emergere di nuove professionalità e ampliato le possibilità degli individui. Come i processi trasformativi citati, anche la digitalizzazione necessita di un governo, di un indirizzo che ne renda accessibili a tutti i benefici e ne limiti i costi economici, sociali e individuali che, inevitabilmente, si producono. In questo ambito, il nostro Paese si trova in una situazione di particolare criticità. In Italia, infatti, 26 milioni di persone non hanno competenze digitali di base. Si tratta del 54% della popolazione italiana tra i 16 e i 74 anni, rispetto al 46% della media Ue. Andando più in profondità nell’analisi, si scopre che questo ritardo del nostro Paese si estende con ancora maggiore criticità sia agli ambiti delle competenze più avanzate, sia a specifici territori, quali quelli del Mezzogiorno, che, infine, a generi e generazioni diverse. Gli effetti di questa situazione sono particolarmente gravi: da una parte, vengono limitati i diritti di cittadinanza di una importante porzione della popolazione, che di fatto si trova in condizione di esclusione rispetto sia a servizi sempre più digitalizzati, che a opportunità di lavoro che progressivamente richiedono maggiori competenze digitali; dall’altra, vengono penalizzati i processi di sviluppo del Paese, che si trova in condizione di penuria di professionalità adeguate ad accompagnarne e supportarne i percorsi di ammodernamento. È per contribuire a contrastare questi effetti negativi e coglierne tutte le opportunità che è nato il Fondo per la Repubblica Digitale, una virtuosa partnership pubblico (Governo) – privato sociale (Fondazioni di origine bancaria), che si prefigge l’obiettivo generale di migliorare le competenze digitali del Paese. Il Fondo intende sperimentare pratiche innovative di formazione digitale, rivolte a specifiche fasce della popolazione, al fine di selezionare quelle ritenute più efficaci, per poi replicarle su scala più vasta, testandone la tenuta e, infine, “offrirle” al decisore pubblico perché possa trasformarle in policy universali e permanenti. Grazie alla chiara visione strategica, a una partnership complementare e sinergica e a una governance armonica ed efficace, il Fondo, che ha già avviato il sostegno a diverse progettualità proposte tramite bandi, ha tutte le carte in regola per contribuire ad affrontare l’ambiziosa sfida che ci vede tutti coinvolti, cioè quella di promuovere lo sviluppo del Paese senza lasciare indietro nessuno.
Dalla rivista fondazioni settembre – dicembre 2023