Il tema di quest’anno del Festival “Dialoghi di Pistoia” è “Umani e non Umani. Noi siamo natura”. Nella cornice del festival sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, che si terrà dal 26 al 28 maggio a Pistoia, si discuterà di un tema chiave della contemporaneità, insistendo sul fatto che l’ambiente non sia un malato da curare ma comprenda noi e tutti gli altri esseri che esistono intorno a noi. Al festival, tra gli altri, interverrà Andrea Staid, docente di Antropologia culturale e visuale presso la Nuova Accademia Belle Arti di Milano e di antropologia culturale presso l’Università statale di Genova. Il suo ultimo libro si intitola “Essere natura” (UTET, 2022) e ci fornisce delle basi per comprendere come siamo arrivati alla crisi ambientale ed ecosistemica e cosa possiamo fare per cambiare rotta. Lo abbiamo intervistato.
Professor Staid, nel suo libro si parte immediatamente affrontando una dicotomia da abbattere, quella tra natura e cultura. Perché iniziare proprio da qui?
Prima di tutto è importante sottolineare che, da professore e antropologo, ho scelto di affrontare il tema del libro con uno sguardo prettamente antropologico. Questo mi ha spinto a partire dalla decostruzione di una dicotomia molto forte nel nostro mondo occidentale, cioè la distinzione tra cultura e natura. Questa distinzione fa parte delle fondamenta dell’antropologia che ha contrapposto i popoli della cultura, colti e capaci di società complesse, ai popoli della natura, selvaggi e primitivi. L’antropologia fino alla prima metà del 900 ha contribuito ad alimentare questa distinzione conferendo alle popolazioni europee e occidentali una sorta di superiorità rispetto ad altre società. Negli ultimi anni, con una svolta ontologica, l’antropologia sta mettendo radicalmente in discussione questi concetti attraverso il lavoro di alcuni autori, come Philippe Descola, che ha pubblicato il libro “Oltre natura e cultura”. Per questo, nel mio libro, ho voluto sottolineare questo processo di decostruzione: per affermare che non esistono società superiori e inferiori e che tutti i popoli sono tanto naturali quanto culturali, dunque, bisogna ripensare questa fantomatica distinzione natura/cultura ormai consolidata da secoli.
Un altro punto importante nel suo libro riguarda il ruolo giocato dal colonialismo europeo. Quale è stato il suo impatto?
Il ragionamento sul colonialismo e in generale su “Essere natura” è arrivato dopo che, in una conferenza sul cambiamento climatico, mi è stato chiesto di ragionare sul perché ci siamo trovati in questa crisi eco-sistemica ed ecologica. Nel rispondere è divenuto evidente quanto sia forte l’impronta del periodo colonialista – dati alla mano – nel cambiamento cosmologico ed ecologico di alcune popolazioni. Mi spiego: il colonialismo non ha portato solo occupazione di territori, armi e malattie come ci suggerisce J. Diamond, ma anche una visione specifica dell’uomo nel cosmo. Il colonialismo, una volta occupata una terra, convinceva i colonizzati che l’unico modo per uscire dalla condizione di selvaggi era quella di mettere l’uomo al centro e sopra a tutto il resto del vivente . Questo significava pensare l’ambiente e tutto ciò che li circondava come risorse, merci, oggetti da cui trarre benefici materiali. Una montagna piena di argento, una foresta primaria, un corso d’acqua, tutto è da mettere a profitto. Il colonialismo dunque diventa “estrattivismo” e, non solo, riduce i popoli in schiavitù o commette veri e propri genocidi, ma cambia anche l’ambiente dove le popolazioni vivono. Questo ha avuto e ha ancora un impatto enorme su alcune società che vivono di caccia e raccolta e che hanno visto scomparire le risorse dei propri territori.
La differenza nel rapporto con la natura si evince anche nel diverso rapporto con la divinità
Certamente, c’è una differenza tra culture che vedono Dio come uomo e altre che magari lo individuano in una montagna, un animale o un fiume. Ci sono altre culture dove la divinità è l’ambiente circostante, e questo cambia inevitabilmente il rapporto degli uomini con essa. Se il suolo che calpesti ha un anima, se la montagna è la divinità che ti protegge la tua relazione con questi elementi vivi non potrà essere quella di distruzione e messa a profitto, ma di relazione e rispetto.
Passiamo ai giorni nostri. Perché i giovani sembrano più attenti alla questione del cambiamento climatico?
Io quest’anno ho conosciuto almeno mille studenti e ho visto una grande presa di coscienza sull’impatto degli ultimi due tre secoli sul nostro presente. C’è coscienza di dover cambiare per resistere su un pianeta che è anche nostro. Per questo rimango stupito quando si parla di giovani pigri e perennemente al telefono. Senz’altro il motivo di questa consapevolezza nasce anche dalla paura del futuro. Dobbiamo affermare l’esistenza dell’“eco-ansia” soprattutto nei più giovani. Si parla di calo della natalità ma non ci si chiede veramente che impatto possa avere la paura del futuro sulla scelta di fare figli. Anche perché questa paura, in alcuni casi, diventa cinismo e questo è un aspetto sul quale dobbiamo fare ancora più attenzione, perché ci sono giovani convinti che non ci sia già più nulla da fare e che anche il cambiamento sia inutile.
Come individui cosa possiamo fare?
Prima di tutto direi riconoscersi come collettività, perché i cambiamenti devono essere collettivi. Ognuno di noi può fare dei ragionamenti sull’impatto che si ha sull’ambiente e come ridurlo. Penso ai trasporti, al cibo, al riciclo, alla scelta di oggetti che possano durare nel tempo. Oltre a questo bisogna accendere i propri sensi quando si è a contatto con la natura. Può sembrare una banalità ma dobbiamo raggiungere la piena consapevolezza di essere circondati da vita e non da oggetti.
E le Fondazioni che ruolo possono giocare?
Credo che ci siano due filoni fondamentali sui quali le Fondazioni già intervengono e possono ampliare i loro intervienti.
Da una parte, finanziare la ricerca per trovare soluzioni sempre più intelligenti la crisi climatica e, dall’altra, sostenere anche economicamente buone pratiche come possono essere le esperienze di banche del tempo, coworking sociale, orti urbani o le biblioteche degli oggetti. Attraverso questi due tipi di intervento si sostiene la possibilità di immaginare e quella di progettare il cambiamento di cui abbiamo bisogno.