Intervista a Silvio Orlando, attore
per Fondazione dicembre 2019
Ha vinto due David di Donatello, due Nastri d’argento, un Globo d’oro e due Ciak d’Oro. In una carriera di oltre trent’anni Silvio Orlando, classe ’57, è oggi uno dei volti più rappresentativi del cinema d’autore italiano contemporaneo. Voce bassa, recitazione sobria, ma estremamente versatile, l’attore di origini napoletane ha iniziato calcando la scena teatrale partenopea per poi arrivare al cinema grazie al regista Gabriele Salvadores che gli offrì un piccolo ruolo in Kamikazen – Ultima notte a Milano (1987). Da allora non si è più fermato.
La sua carriera è stata di grande successo, ha lavorato con tanti registi famosi ma soprattutto ha interpretato moltissimi ruoli. Dei personaggi che ha rappresentato ce n’è uno in particolare che ricorda con affetto?
C’è un personaggio che mi rimane nel cuore a distanza di tanto tempo ed è il professor Vivaldi del film “La scuola” di Daniele Luchetti. Naturalmente, l’affetto nei confronti di questo ruolo è dettato anche dal fatto che è stato il mio primo grande successo e il professor Vivaldi in qualche modo, è stato anche amato da tanti. Inoltre, il film di Luchetti è stato un progetto partito da me, quindi è un personaggio che sento fortemente appartenermi. Poi, è chiaro, ho interpretato tanti ruoli e in qualche modo sono affezionato a tutti, dal primo fino ad arrivare all’ultimo il cardinale Angelo Voiello nella serie “The New Pope” di Paolo Sorrentino.
“La scuola” di Luchetti mette al centro una generazione di professori e studenti degli anni Novanta. Oggi la scuola è cambiata?
Io credo che la differenza sostanziale sia che all’epoca si viveva ancora il sogno di una scuola concepita come missione sociale e anche politica in senso alto. La scuola possedeva una funzione prioritaria che era quella di diminuire la forbice sociale, riuscire a dare opportunità a tutti compresi i meno fortunati e a consentire l’aggregazione sotto lo stesso tetto di persone di livelli sociali diversi (ovviamente mi riferisco alla scuola pubblica). Oggi mi sembra che con il cambiamento delle condizioni politiche e economiche, i quartieri si siano connotati più in maniera decisa per somigliare alla classe sociale che li abita; allo stesso modo le scuole riflettono il quartiere in cui sono inserite e ripropongono l’organigramma e la struttura sociale di quella determinata zona. Per questo, probabilmente, quelle speranze che la nostra generazione investiva nella scuola pubblica dell’epoca, oggi fanno più fatica a esistere.
“La scuola” non è l’unico film in cui ha interpretato il ruolo del professore, ce ne sono altri come “Il Portaborse” sempre di Luchetti, “Il papà di Giovanna” di Pupi Avati. Come si è trovato a interpretare questo ruolo in più pellicole? Se non avesse fatto l’attore avrebbe voluto vestire i panni di un educatore?
Probabilmente, antropologicamente questa funzione mi si addice. Il ruolo di educatore mi è sempre stato consono ed è per questo che ci sono “inciampato” così di frequente. Va anche detto che chiaramente in Italia, nel mondo dello spettacolo, quando si ha successo con un personaggio, si tende a riproporlo e quindi i panni del professore hanno vestito una bella fetta della mia carriera. In ogni caso, anche quando non ho interpretato il docente, ma l’intellettuale meridionale alle prese con le problematiche del mondo (altro ruolo costante nella mia carriera), la scuola rimaneva sempre sullo sfondo.
Se dovesse dare un consiglio a un giovane che vuole intraprendere la carriera teatrale o cinematografica cosa gli direbbe?
All’inizio della mia carriera credevo molto nel talento, ovviamente ancora ci credo, tuttavia oggi mi rendo conto di dare la priorità al lavoro. Il talento delle volte può anche essere un’arma a doppio taglio: per esempio, può rappresentare un limite per un attore che si crede troppo bravo, oppure per soddisfare il talento si segue un percorso che non è sempre detto riesca a prendere forma. Inoltre, è importante non confondere il talento con la passione, si tratta di due cose ben distinte: se c’è la passione, ma non c’è talento, si rischia di incaponirsi su un percorso di vita non idoneo alle proprie capacità.
“Rispetto e teatro” è il dialogo che ha messo in scena di recente al teatro La Pergola nell’ambito del ciclo d’incontri “Sulla scia dei giorni”, organizzato dalla Fondazione CR Firenze. Cosa vuol dire rispetto?
Ho partecipato con molto piacere a questa iniziativa. La parola rispetto mi piace molto perché ritengo che sia collocata vicino alla parola dignità, che è una delle mie parole favorite. Penso che l’essere umano non debba mai scendere sotto la soglia della dignità, dunque si tratta di una parola che rappresenta un faro, una linea guida. Rispetto e dignità sono fondamentali per chiunque ed è solo tenendo ben presenti questi principi di vita che occorre fare spesso un bilancio con sé stessi e capire di giorno in giorno se il proprio percorso sia rispondente all’identità e ai valori che ci caratterizzano
Dalla rivista Fondazioni novembre-dicembre 2019