Intervista a Oliviero Toscani, fotografo
per Fondazioni febbraio 2020
Va dritto al punto, non ama i giri di parole. Non approva chi cerca consenso e chi acconsente con troppa facilità. Pensa che a cambiare il mondo siano i “no” e non certo i “sì”. È Oliviero Toscani, conosciuto a livello internazionale come la forza creativa dietro i più famosi marchi del mondo. Creatore di immagini corporate e campagne pubblicitarie iconiche e di forte impatto mediatico, in questa intervista ci confessa: «Odio la pubblicità, l’ho solo utilizzata come mezzo per veicolare messaggi».
Provocare: per lei cosa vuol dire?
Provocare è un’azione fondamentale dell’arte. Provocare vuol dire prima di tutto suscitare interesse, stimolare cultura, far nascere pace e amore. Se l’arte non provoca non serve a niente. In realtà qualsiasi mestiere deve “provocare”, pensiamo al mestiere del medico: se il medico non provoca la guarigione del paziente, purtroppo non è un bravo professionista. Se un insegnante non provoca l’educazione dei suoi allievi è un cattivo educatore. Io ho sempre lavorato cercando di provocare interesse per quello che facevo. D’altronde, quando vado al cinema, voglio essere provocato e desidero che qualcuno mi faccia vedere le cose anche diversamente da come le penso, così da poter mettere in discussione le mie idee e magari migliorarle. Qualcosa che provoca un miglioramento è sempre un successo. In realtà quando tutti esprimono consenso, la cosa mi insospettisce; quando tutti mi danno ragione è proprio lì che penso non ci sia buon senso. La ricerca costante del consenso crea sempre mediocrità.
Lei ha fotografato il “diverso” in tutte le sue sfaccettature (disabili, condannati a morte, malati), che cosa è per lei la diversità?
Tutto è diverso. Non credo esistano in natura due uova uguali, anche se possono sembrare identiche; se lei prende due uova e le mette sotto la lente del microscopio, vedrà che ci sono tante differenze. Neanche due fili d’erba sono uguali, figuriamoci tutto il resto del mondo. La bellezza della creazione risiede proprio nella diversità. Paradossalmente questa diversità spaventa, fa paura a molti; io ritengo però che chi teme la diversità in realtà stia indietro. Penso che l’umanità si possa dividere in due categorie: quelli che dicono sempre sì, che non si lamentano mai e che magari ti consigliano anche di non lamentarti, di non parlare. Poi ci sono i “rompiscatole” che dicono “no” e mettono in discussione tutto con spirito critico. Secondo lei il mondo progredisce grazie a chi?
Lei è riuscito a parlare nei suoi lavori di razzismo, fame nel mondo, pena di morte, AIDS, disturbi psichici, religione, guerra, violenza. Pensa di essere riuscito a modo suo a rompere degli schemi e scalfire delle “certezze”?
La mia volontà non è mai stata quella di rompere schemi, ma di testimoniare il mio tempo. Penso che i fotografi debbano essere testimoni della storia che vivono. Il fotografo moderno non è quello che sa fare foto, è quello che vuole lasciare una testimonianza concreta. Io ho sempre usato la macchina fotografica per lasciare traccia del mio tempo, ma avrei potuto allo stesso modo utilizzare il computer e scrivere, avrei potuto usare la musica per veicolare messaggi… basta pensare a Bob Dylan, che prima di essere un bravo musicista è colui che con le sue canzoni ha lasciato testimonianza della sua generazione. Io mi reputo prima di tutto un testimone e anche quando ho fatto fotografie di moda, ho immortalato modelle tra le più belle al mondo, anche lì ho lasciato una testimonianza. Perché anche la bellezza appartiene alla cultura moderna e alla condizione umana, non c’è solo la fame del mondo, la morte, le malattie. La società è anche bellezza, architettura e moda, tutte cose che rappresentano anch’esse lo specchio di una civiltà.
Ha qualche rimpianto? Cambierebbe qualcosa del suo percorso professionale?
Diciamo che esiste un aspetto del mio percorso che mi ha fatto molto soffrire e ancora oggi rappresenta un dispiacere: sono arrivato troppo presto. Ovvero, il mio problema è che trent’anni fa sono stato il primo a fare foto per denunciare una malattia come l’AIDS, oppure denunciare la guerra e la violenza. Se c’è una cosa peggiore dell’esser in ritardo è arrivare in anticipo: da una parte sono molto fiero del mio intuito, però chi arriva in ritardo può copiare e sviluppare l’intuizione di chi è passato prima, migliorandone i difetti ed ecco che ha molto più successo del precursore. Dopo qualche anno nessuno fa più la differenza su chi ha inventato e chi ha copiato. È come in bicicletta, ci son quelli che tirano il gruppo ma non sono mai quelli che vincono: quelli che vincono stanno dietro e poi fanno la volata sul finale così da arrivare al traguardo con molte più energie.
Rispetto agli inizi della sua carriera, come è cambiato il mondo della comunicazione pubblicitaria?
Devo dire una cosa, tutti dicono: “Toscani ha fatto la pubblicità”, in realtà io non ho mai lavorato con un’agenzia di pubblicità e non amo particolarmente i pubblicitari. Trovo che il mondo della pubblicità abbia fatto molte cose stupide con pochissime eccezioni. Io ho voluto utilizzare le vie della pubblicità per raccontare altro: problemi e criticità che la pubblicità non ha mai neanche voluto sfiorare. Oggi il mondo della pubblicità è come ieri, se non fosse che è più in crisi rispetto al passato e allora tenta di risollevarsi cercando di fare della sociologia… Ma non ho affatto fiducia in questa tendenza.
Lei ha detto che oggi tutti fotografano: che ne pensa di questo utilizzo massiccio di immagine al giorno d’oggi?
Va benissimo se tutti creano immagini, anzi si tratta di tutta memoria storica utile all’umanità, ci sono immagini che diventeranno importanti solo con il tempo. Inoltre le fotografie possono essere un monito per non rifare gli errori del passato. Pensiamo alle testimonianze visive dei lager nazisti, per esempio, quanto oggi siano efficaci nel rappresentare un insegnamento. La fotografia è memoria storica dell’umanità. Da quando esiste la fotografia esiste la vera storia umana: se ci fossero state le macchine fotografiche forse la Bibbia non sarebbe stata scritta così, se Napoleone fosse stato fotografato durante le sue campagne forse non sarebbe stato l’eroe che oggi conosciamo. Bisogna rendersi conto che al giorno d’oggi il 95% per cento delle cose che conosciamo le impariamo perché abbiamo visto una fotografia. Per esempio le grandi opere d’arte sappiamo che esistono e le possiamo studiare e ammirare perché sono state fatte riproduzioni visive (impossibile pensare di poter vedere tutti gli originali delle opere d’arte più famose al mondo). Ormai viviamo in una cultura mediata dalla fotografia, dove la fotografia è il mezzo di comunicazione più invasivo e più importante. Una volta questo mezzo era la parola, poi la scrittura, oggi è l’immagine che tra l’altro circola ad una velocità sbalorditiva grazie a internet. La verità è che oggi viviamo di immagini.
La prima foto che ha fatto? Quando è stato il momento in cui si è avvicinato alla fotografia?
Mio padre faceva il reporter per il Corriere della Sera quindi sin dall’infanzia avevo dimestichezza con le immagini e con le macchine fotografiche. Tuttavia ricordo che la prima foto che scattai la feci con una macchina fotografica Rondine ricevuta in regalo a Natale. Fotografai un pupazzo di panno e poi mia nonna che cucinava. Avevo 6 anni.
Dalla rivista Fondazioni gennaio – febbraio 2020