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Alimentazione e cambiamento climatico | Edward Mukiibi

Testimonianza di Edward Mukiibi, presidente di Slow Food
per Fondazioni ottobre 2022

 

Il nostro modo di vivere sta distruggendo l’ambiente e le risorse comuni dell’umanità. E questo non è più sostenibile, non può garantire la sopravvivenza dell’umanità nel futuro. È per questo che oggi ci troviamo nella necessità di una transizione ecologica. Cambiare le cose è una scelta obbligata, se vogliamo che le prossime generazioni possano vivere su questo pianeta».  A spiegarlo è Edward Mukiibi il nuovo presidente di Slow Food che, in questa intervista, spiega e analizza quale sia il rapporto, imprescindibile, tra transizione ecologica e alimentazione. «Oltre alla distruzione, ormai irrimediabile perché già avvenuta, di oltre il 70% della biodiversità nel mondo, abbiamo una crisi climatica che si avvia drammaticamente verso un punto di non ritorno – prosegue il presidente -. Il sistema di produzione alimentare industriale è uno dei maggiori responsabili del quadro che ho descritto: l’agricoltura e le altre attività connesse causano un quarto delle emissioni globali di CO2 (secondo il rapporto degli scienziati dell’IPCC), e due terzi di queste sono legate all’allevamento. L’agricoltura, in particolare quella su piccola scala, è anche la prima vittima dei cambiamenti climatici, in quanto i contadini devono affrontare siccità devastanti e alluvioni improvvise. L’innalzamento del livello del mare minaccia la sopravvivenza delle comunità che vivono sulle coste e vicino ai fiumi, le frane causano enormi perdite economiche e di vite umane alle comunità montane, l’acidificazione degli oceani provoca la morte degli ecosistemi marini e ogni giorno assistiamo a una perdita sempre maggiore di biodiversità e a una desertificazione che sembra inarrestabile».

Mukiibi sottolinea quanto sia fondamentale capire il significato di transizione ecologica per poter divenire parte del processo che la riguarda: «Non si tratta di una corsa all’avanzamento tecnologico per costruire auto elettriche, incenerire i rifiuti con più efficienza o produrre la carne in vitro – sostiene -. Una transizione reale significa invece capire che l’auto non è il mezzo più adatto per viaggiare, specialmente in città; che i rifiuti bisogna prevenirli e diminuirli drasticamente, riducendo il packaging e gli acquisti superflui; che si può consumare meno carne ma di qualità migliore, allevata su piccola scala e con tecniche rigenerative, per mettere fine agli allevamenti intensivi; che si può fare agricoltura efficiente di prossimità senza dipendere dalla chimica e dalla meccanica pesante; che il turismo non deve andare di pari passo con la gentrificazione, l’espulsione dei residenti e la crescita esponenziale degli affitti, per non parlare della speculazione edilizia e la distruzione ambientale nelle località del turismo di massa».

Allevamenti animali e consumo di carne risultano spesso essere le principali accusate di responsabilità in termini d’inquinamento. Cosa ne pensa? «La produzione e il consumo di carne sono ormai insostenibili per le conseguenze sul clima, per l’inquinamento che provocano, per le condizioni di vita di miliardi di animali allevati senza alcun riguardo per il loro benessere, spesso anzi sottoposti a grandi sofferenze. Se il consumo globale di carne raddoppiasse tra oggi e il 2050 (come previsto in realtà dalla FAO), passando da oltre 250 milioni di tonnellate di carne per anno a 500 milioni, il sistema collasserà. È importante affrontare il grave pericolo per l’ambiente causato dalla produzione massiva di carne, tenendo presente che nel mondo esistono molti sistemi tradizionali di allevamento che non sono così distruttivi e pericolosi.

La carne in eccesso e di bassa qualità, che oggi è diventata il principale argomento di discussione, è il prodotto finale di un sistema di cui si vogliono ignorare la maggior parte dei costi ambientali, sociali e sanitari. Dall’inizio del XX secolo, metà delle razze animali da allevamento in Europa è scomparsa, e un terzo di quelle tuttora esistenti sono a rischio di fare la stessa fine entro i prossimi 20 anni. Le razze locali sono importanti perché nel tempo si sono adattate a climi, ambienti e terreni diversi. Quando sono allevate in modo sostenibile nel loro territorio d’origine, forniscono carne, latte o uova di qualità eccellente.  Gli allevamenti intensivi utilizzano il 70% degli antibiotici prodotti nel mondo, spesso somministrati in modo inappropriato e in quantità eccessive per prevenire malattie legate al sovraffollamento o per stimolare la crescita. Gli antibiotici passano attraverso le feci nelle falde acquifere, finendo nell’ambiente e, infine, dentro di noi. Di conseguenza, i batteri stanno sviluppando una “antibiotico-resistenza”, rendendo sempre più difficile curare anche semplici infezioni. L’Unione Europea l’ha definita una delle più grandi minacce per la salute».

Un’altra minaccia incombente che rischia di porre fine alla vita umana, animale e vegetale è lo scarseggiare della risorsa che più di ogni altra è sinonimo di vita: l’acqua. «L’acqua è un elemento di connessione fondamentale tra l’uomo e la natura ed è indispensabile alla vita – spiega il presidente di Slow Food -. L’ONU ha riconosciuto il diritto umano all’acqua una decina di anni fa, ma questa risorsa sta diventando scarsa e costantemente privatizzata. L’acqua è un bene comune, non può essere privatizzata, ma deve essere gestita a livello territoriale in modo democratico. La transizione ecologica ci sta mettendo alla prova anche su questo tema cruciale». Sistema alimentare e circolarità: è possibile? «Tutto il sistema alimentare deve essere osservato dal punto di vista dell’economia circolare. Dobbiamo impedire al sistema industriale lineare di continuare a massimizzare i profitti creando uno spreco gigantesco, i cui costi sono pagati dall’intera collettività. Pensare in maniera circolare non vuol dire solo ridurre gli sprechi, bensì essere in grado di dare una seconda vita agli scarti di produzione che si creano a ogni tappa della filiera agroalimentare. Prodotti di lavorazione che prima venivano considerati come rifiuti, oggi, grazie al pensiero sistemico, possono rappresentare una preziosa materia prima per altre catene produttive. D’altronde questo è un approccio che ha radici storiche ben salde.

Prima dell’avvento dell’industrializzazione, la produzione alimentare era per la sua stessa natura circolare. E in molte realtà della mia Africa, dove i sistemi tradizionali di agricoltura sono applicati, la circolarità è uno degli elementi costantemente presenti». Politiche alimentari e futuro: cosa è stato fatto di buono finora e cosa dovrebbe essere migliorato?

«Se penso all’Europa, è più che mai giusto che l’UE  abbia preso degli impegni in questo ambito con il “Green Deal” e la “Farm to Fork strategy”. Ma si può fare molto anche partendo dal basso, agendo sull’approvvigionamento alimentare pubblico. Ci sono progetti e iniziative portati avanti a livello locale, che dovrebbero essere implementati e diffusi. Slow Food, per esempio, è un partner chiave di “Food Trails”, un progetto quadriennale finanziato dall’UE che mira a incoraggiare lo sviluppo di politiche alimentari integrate nelle città che prevedono la collaborazione tra amministrazioni pubbliche e cittadini per progettare politiche alimentari che riducano gli sprechi, aumentino la sostenibilità e garantiscano alle persone una dieta sana e sicura. Ci sono esperienze molto interessanti portate avanti da città come Torino, Milano, Londra, Grenoble, Ostenda e Roma».

Slow Food immagina un mondo in cui tutte le persone possano mangiare con gioia un cibo buono per loro, buono per chi lo coltiva e buono per il pianeta. Ci sta riuscendo? A che punto siamo? «Ognuno di noi, nelle sue attività quotidiane, sperimenta già frammenti del mondo che vorremmo: gli orti sono piattaforme per l’apprendimento multigenerazionale, le comunità di produttori trasformano i prodotti in via di estinzione in beni economici, i mercati contadini mettono in contatto l’urbano e il rurale, le campagne di educazione e sensibilizzazione utilizzano il cibo per promuovere importanti questioni sociali e ambientali, i raduni e gli eventi riuniscono persone di ogni età e provenienza, le cucine diventano spazi sociali di educazione, riflessione e azione per ridisegnare il nostro rapporto con il cibo. Ciò per cui dobbiamo lavorare è che tutte queste azioni si realizzino ogni giorno. In tutto il mondo sono già stati implementati modelli che hanno dimostrato di avere un impatto positivo straordinario. Dobbiamo costruire sistemi alimentari che siano resilienti di fronte alle crescenti avversità ambientali e sociali, a partire dai contesti più vulnerabili».

Dalla rivista Fondazioni settembre-ottobre 2022