Intervista a Annalisa Corrado, ingegnera meccanica, ecologista, attivista
per Fondazioni ottobre 2022
Annalisa Corrado è un’ingegnera meccanica, ecologista e da sempre attivista per la giustizia climatica, co-portavoce dell’associazione Green Italia e responsabile delle attività tecniche dell’associazione Kyoto Club. Abbiamo raccolto le sue idee sulla transizione ecologica.
Cos’è per lei la transizione ecologica?
La transizione ecologica è una rivoluzione sistemica che dovrebbe spingere la nostra economia e il nostro modello di sviluppo a “transitare”, appunto, da un modello dominato dall’utilizzo (dissennato) di fonti fossili a un modello di decarbonizzazione totale, attraverso l’utilizzo sostanziale di fonti rinnovabili. Non si tratta di un percorso meramente tecnologico ma intersezionale, perché è tutto il sistema che necessita di essere modificato. Non è sufficiente trasformare la modalità di generare e distribuire energia, ma bisogna incidere anche su tutti gli altri settori: dall’industria al residenziale, dall’agricoltura e l’allevamento al turismo, dall’educazione alle scelte individuali, dalle decisioni a livello nazionale ai rapporti internazionali e geopolitici.
Come attuare questa rivoluzione sistemica? Ci sono sperimentazioni valide che potrebbero diventare modelli da replicare su larga scala?
Assolutamente sì. Nel mondo sono ormai numerose le comunità territoriali che hanno fatto della transizione ecologica un obiettivo concreto, con una strategia e delle azioni chiare. Per rimanere vicini a noi, il Portogallo ha fatto passi da gigante, ma anche città importanti come Barcellona e Parigi stanno realizzando delle vere e proprie rivoluzioni nella gestione complessiva della città. L’Italia non è da meno, tante sono le economie territoriali e locali che hanno avuto un ruolo da apripista nel mondo della sostenibilità e della transizione ecologica. Con Alessandro Gassmann abbiamo coideato il progetto “Green Heroes”, proprio allo scopo di raccontare queste esperienze, attraverso le figure visionarie, “eroiche”, che le realizzano, dimostrando che ci sono delle soluzioni efficaci, che apportano benef ici ai territori, alle persone, alla salute, alla salubrità e che fortificano l’economia, portano fatturato e posti di lavoro. Le buone pratiche, dunque, ci sono, c’è consapevolezza, ci sono le conoscenze scientifiche, le tecnologie, gli strumenti, a mancare è la volontà politica di rendere la transizione un progetto concreto.
Perché manca la volontà politica di realizzare la transizione ecologica?
Io penso ci sia un ancoraggio molto forte ai modelli passati, quelli novecenteschi, anche a causa degli interessi dei grandi gruppi che influiscono in maniera determinante sulle decisioni politiche. Si tratta di modelli ancora molto centralizzati di produzione dell’energia, che non credono nelle possibilità delle fonti rinnovabili, dell’efficienza energetica, dell’elettrificazione dei consumi. È come se fossimo timorosi di affrontare un cambiamento radicale, e a causa di questo timore stiamo perdendo importanti occasioni.
Quali occasioni?
Un caso molto emblematico è quello dell’automotive: il più grande gruppo italiano del settore si è rifiutato di vedere nell’elettrico una prospettiva, ha cominciato a farlo solo recentemente, arrancando, invece di rimanere competitivo a livello internazionale. Anche sulla plastica, in Italia abbiamo delle eccellenze a livello internazionale nella produzione di materiali monouso ma, vent’anni fa, non si è investito su questo primato per trasformare il settore e mantenerlo competitivo, ci si è invece arroccati, insistendo sul mantenimento di un’economia già destinata a scomparire. Un’inerzia della trasformazione, insomma, che è autolesionista se si pensa anche alla bioplastica, materiale ideato da una scienziata italiana, Catia Bastioli, che guida la prima azienda, a livello internazionale, a produrre una plastica a base di amidi, cellulosa e oli vegetali. Perché non puntare su queste eccellenze sostenibili e avanguardiste, invece di rallentare la transizione?
Nonostante questa inerzia, ci sono diversi movimenti sociali (soprattutto giovanili) che sono molto attivi su questo fronte e che hanno riportato la questione al centro del dibattito pubblico. Ha fiducia in loro?
Sicuramente l’attenzione sul tema è stata potenziata e rinvigorita dai movimenti giovanili. Si tratta di un segnale di attivismo molto importante. Tuttavia non possiamo pretendere che siano loro a risolverlo, mi sembra una posizione deresponsabilizzante: la situazione attuale è la conseguenza delle decisioni e delle azioni passate, quindi dovremmo essere tutti coinvolti. Siamo tutti convocati alla causa, nessuno escluso. Quella della transizione ecologica dovrebbe essere una battaglia intergenerazionale, oltre che intersezionale, anche perché, spesso, a una maggiore sensibilità non corrispondono proposte concrete e quindi una reale capacità collettiva di incidere. Tutti devono essere coinvolti, scienziati, tecnici, decisori politici, non si può lasciare che siano solo i giovani a pretendere e avviare il processo di transizione e, contemporaneamente, cercare di trasformare un immaginario culturale e collettivo che considera spesso gli ecologisti come sognatori dai sentimenti nobili ma poco capaci e concreti. Al contrario, l’ecologismo trova le basi anche da un incredibile avanzamento scientifico e tecnologico, che ne rafforza e concretizza le istanze. Tuttavia, nel dibattito politico si propongono ancora trivelle, inceneritori e impianti nucleari, come nel Novecento.
Come uscire da questa impasse?
Io credo che servano nuovi modelli di partecipazione popolare per incidere sull’agenda politica e sull’agenda mediatica, affinché anche a livello politico si considerino queste istanze e competenze sociali, per farne delle politiche concrete. Oggi sono tanti gli eventi catastrofici ai quali stiamo assistendo, si contano i morti, i danni e i costi per i territori, anche in Italia. È inqualificabile e irresponsabile corroborare un sistema che risponde solo agli interessi di piccoli gruppi di potere, che non hanno alcuna intenzione di abbandonare questi modelli. Bisogna dunque che entri in gioco anche la politica, non c’è altra strada. Spesso si gioca sulla responsabilità individuale, sui comportamenti dei singoli cittadini: si invita a fare bene la raccolta differenziata, a consumare meno energia, a essere meno consumisti, ma a livello politico ed economico si continua a difendere e alimentare il sistema che ha portato alla situazione attuale. C’è dunque un’ipocrisia e una deresponsabilizzazione di fondo. Sicuramente è importante che ognuno di noi faccia la sua parte, ma non basta predicare ai singoli se a livello politico e istituzionale non si fa lo stesso.
Durante un’intervista, Martina Comparelli, portavoce dei Fridays for Future ha detto: «Per me lottare significa credere che le cose cambieranno, perché possono cambiare e perché ci faremo sentire». Secondo lei, le cose cambieranno?
Non si può non rispondere a questa domanda con «Per forza cambieranno»; rispondere diversamente significherebbe vanificare tutto ciò in cui crediamo e cerchiamo di realizzare. Non sappiamo chi vedrà i benefici di questa battaglia: stiamo solo passando il testimone e tenendo accesa una fiaccola, ma non continueremmo se non credessimo che, prima o poi, sì, le cose cambieranno.
Dalla rivista Fondazioni settembre-ottobre 2022