Intervista a Elena Fontanella, ricercatrice nel Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
per Fondazioni giugno 2022
Nell’immaginario sociale, le periferie risultano aree lontane del centro delle città, definite principalmente per le loro “assenze” – di servizi, opportunità, relazioni con il resto della comunità – e per la loro fragilità spaziale, sociale ed economica. In che modo è possibile invece rigenerarle a partire dalle loro risorse e potenzialità? Lo abbiamo chiesto ad Elena Fontanella, Ricercatore in Composizione Architettonica e Urbana presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani (DAStU) del Politecnico di Milano e, tra il 2019 e il 2021, Assegnista di Ricerca nell’ambito del progetto Fragilità Territoriali del DAStU, linea di ricerca “Periferie urbane e metropolitane come territori fragili”.
Come definirebbe le periferie?
Radicando la mia risposta nel tempo attuale, definirei le periferie come gli ambiti più fragili delle città e delle aree metropolitane contemporanee. Nel linguaggio comune, le periferie corrispondono (e hanno a lungo corrisposto) ad ambiti urbani lontani da un centro assunto come riferimento, sia spaziale che simbolico. Questa accezione, in cui l’elemento caratterizzante è la posizione di un’area, di un quartiere, all’interno del corpo urbano, è oggi fortemente messa in discussione. A prevalere è infatti la coesistenza di un mix di problemi di natura multidimensionale, sia materiali che immateriali. Questi caratterizzano le periferie contemporanee, oggi spesso tutt’altro che distanti dai centri delle nostre città. Si registra dunque uno scarto, un passaggio da “periferia come posizione” a “periferia come condizione”, in cui la posizione continua parzialmente ad incidere, ma insieme ad altri fattori. Le periferie sono infatti connotate da fragilità che sono allo stesso tempo di natura spaziale, sociale, economica, demografica, culturale e ambientale. Queste dimensioni non solo sono compresenti, ma sono tra loro fortemente interagenti, alimentandosi
Nonostante le diversità, è possibile delineare delle caratteristiche comuni?
Sì, è possibile individuare caratteristiche comuni, pur nella pluralità delle condizioni. La prima fa riferimento proprio alla multidimensionalità delle fragilità delle periferie e alle dimensioni richiamate, sempre presenti seppure in proporzioni e modalità ogni volta diverse. Una seconda caratteristica comune è la percezione delle periferie come ambiti separati dalla continuità del tessuto urbano, come “corpi estranei”, sia da parte di chi abita al loro interno che dall’esterno. Questa percezione, anche in assenza di limiti fisici effettivi, finisce per rafforzare il senso di isolamento, esclusione e marginalità delle periferie. Un terzo elemento comune è una diffusa assenza di cura, intesa in senso ampio, e di azioni di manutenzione, che influiscono sulla bassa qualità degli spazi dell’abitare, sia di quelli privati che collettivi e pubblici, riflettendosi in una frequente percezione di insicurezza. All’assenza di cura è inoltre riconducibile anche il senso di abbandono da parte delle istituzioni, che spesso è molto sentita negli ambiti periferici. Un ultimo tratto comune alle periferie è relativo all’essere ambiti urbani caratterizzati non tanto dalla presenza di caratteristiche in grado di connotarne l’essenza, quanto da una assenza.
Alcune aree periferiche hanno subito un processo di de-periferizzazione. Come si trasformano queste zone?
La condizione di perifericità delle aree urbane, soprattutto nell’accezione richiamata, non è una condizione originaria ma l’esito di un processo di progressivo indebolimento, di fragilizzazione. Si tratta di una condizione tutt’altro che irreversibile e immutabile, anche se in alcuni casi i problemi sono così numerosi e profondi da apparire tale. Lo dimostra il caso di diversi quartieri che nel corso del tempo hanno percorso traiettorie ascendenti o discendenti, modificando la propria condizione. Ecco, dunque, che parti di città precedentemente riconosciute come periferiche, sia per via della distanza dai tessuti più consolidati che in riferimento all’alta concentrazione di profili fragili, sono state progressivamente inglobate nel tessuto urbano in crescita e la loro natura è cambiata. Alcuni quartieri sono usciti da una condizione di degrado che li ha connotati in passato, superando situazioni di isolamento e di difficile accessibilità, altri invece non hanno registrato significativi cambiamenti o hanno assistito ad un progressivo peggioramento delle proprie condizioni. Il termine “periferie” si utilizza sempre in riferimento ai centri delle città.
Esistono anche aree periferiche lontane dalle città. Cosa le accomuna?
L’accezione che riferisce le periferie esclusivamente ai centri delle città appare oggi se non superato, almeno fortemente messo in crisi. Il termine “periferie” ha nel tempo attraversato diverse scale di riferimento non limitandosi a quella urbana, venendo utilizzato anche in relazione a quella regionale, nazionale e internazionale. Esistono dunque, in questo senso, aree periferiche lontane dalle città. Per fare un esempio, la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) utilizza la denominazione di aree “periferiche” e “ultra-periferiche” per far riferimento ai Comuni italiani che distano da 40 a 75 minuti (periferici) o più di 75 minuti (ultra-periferici) dal Polo più vicino, inteso come centro di offerta di servizi, in grado di assicurare: tutta l’offerta scolastica secondaria, almeno un ospedale con Pronto Soccorso e alcune funzioni specifiche, almeno una stazione ferroviaria di categoria Silver, secondo la classificazione di RFI. Un elemento che accomuna questi ambiti territoriali con le periferie urbane è rintracciabile nel senso di abbandono da parte delle istituzioni, da un comune sentirsi “luoghi che non contano” (“places that don’t matter”, espressione di A. Rodriguez-Pose), e nella già ricordata assenza di cura che sperimentano quotidianamente.
Nel libro “Rigenerare periferie fragili” (LetteraVentidue, 2021) lei ha messo in risalto un nodo problematico: “il cambiamento di paradigma da un’idea di crescita urbana come espansione ad una crescita sempre più riferita alla rigenerazione dei tessuti già esistenti”. Perché è necessario questo cambio? In che modo potrebbe avvenire?
Si tratta di un cambio di paradigma della crescita dei tessuti urbani già in atto, soprattutto nel contesto italiano ed europeo, seppure non ancora sufficientemente prevalente. Le nostre città presentano al loro interno edif ici e aree spesso sottoutilizzate o abbandonate, sia di proprietà pubblica che private: caserme, scuole, ospedali, edifici per uffici, insediamenti industriali e aree libere inutilizzate esito di dismissioni, che rappresentano preziose occasioni per una crescita urbana che intervenga proprio sul ripensamento di questi ambiti già interni al corpo urbano, spesso interessati da fenomeni di marginalità e degrado, e che hanno perso nel corso del tempo il proprio ruolo. Intervenire sull’esistente, secondo una logica del “costruire sul costruito” consente allo stesso tempo di riattivare spazi sottoutilizzati o abbandonati, lavorare sul sistema delle relazioni tra le parti (e non solo sui manufatti) e di evitare nuovo consumo di suolo (non dobbiamo infatti dimenticare l’allarmante dato di 2 m2 di suolo consumato ogni secondo in Italia – ISPRA 2021), tenendo in forte considerazione la sostenibilità ambientale degli interventi. Questo cambiamento di paradigma potrebbe influire molto positivamente sulla rigenerazione degli ambiti urbani periferici, cogliendo l’occasione di lavorare sugli elementi più fragili e sulle risorse presenti al loro interno.
Tante sono le realtà del Terzo settore attive in questi territori che hanno contribuito alla “rigenerazione” delle periferie. In che modo?
Hanno contribuito in molti modi: tenendo alta l’attenzione sugli ambiti più fragili, attivando reti di mutuo soccorso (che spesso nei mesi più difficili della pandemia da Covid-19 si sono rivelate fondamentali per sostenere le famiglie più in difficoltà), organizzando attività ed eventi di animazione e a base culturale, coinvolgendo la popolazione ingaggiandola su temi cruciali e, in alcuni casi, riuscendo a riscattare spazi precedentemente abbandonati e usati impropriamente. A titolo esemplificativo, la bella realtà degli Orti di via Padova a Milano dove è stata recuperata una piccola area del Comune precedentemente usata come discarica abusiva, o la Ludoteca di Tor Bella Monaca, dove un gruppo di mamme del quartiere ha recuperato un piccolo edificio inutilizzato. Quello del Terzo settore è, dunque, un contributo prezioso, radicato nei territori, che contribuisce a mantenere alto il livello di attenzione e a far emergere risorse latenti, coinvolgendo la popolazione locale. Tuttavia, è necessario un sostegno da parte degli attori pubblici e delle istituzioni, integrando così iniziative dal basso e progetti più strutturali dedicati ai contesti periferici.
Da Fondazioni giugno 2021