Lorenzo Gasparrini è un filosofo e un divulgatore. Abbiamo chiesto il suo punto di vista sulle radici culturali della disuguaglianza di genere.
Lei si definisce filosofo femminista. Cosa vuol dire esattamente?
Essere “filosofo femminista” vuol dire usare la tradizione del pensiero occidentale includendo anche quello che la tradizione ha escluso. Mi riferisco al pensiero delle donne, alla loro riflessione e alle loro pratiche sui sistemi di potere in atto nella società e nei rapporti interpersonali e anche su come si costruiscono tradizioni condizionanti per i ruoli sociali di uomini e donne. Vuol dire divulgare e raccontare questa grande raccolta di riflessioni e di azioni che sono i femminismi, spiegarne il significato e usarne i risultati soprattutto verso quelle persone che non ne hanno mai sentito parlare o che ne hanno sentito parlare in maniera distorta e parziale.
I femminismi hanno come obiettivo anche il miglioramento della vita delle persone che si riconoscono nel genere maschile?
I femminismi vogliono migliorare la vita di chiunque, anche se agiscono soprattutto sulle persone più discriminate e colpite dagli effetti delle disuguaglianze di genere. L’azione dei femminismi è quella di rendere chiunque più consapevole della struttura della nostra società contemporanea che ha effetti anche sugli uomini come genere. Sono molti infatti a vivere vite infelici o insoddisfacenti anche a causa di come oggi viene percepito il genere maschile. I femminismi servono anche a rendere tutti più consapevoli e a superare la dimensione individuale per crearne una collettiva.
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L’azione dei femminismi è quella di
rendere chiunque più consapevole della struttura
della nostra società contemporanea
che ha effetti anche sugli uomini
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Il femminismo dovrebbe avere anche altri nomi?
La storia non si può cambiare, il femminismo si chiama così perché sono state prima le donne – in quanto più oppresse – a mettere in discussione i ruoli di genere imposti dalla società. Poi possiamo chiamare questo movimento come ci pare, o non usare affatto quel nome, ma non sono i nomi a tenere lontane le persone da una maggiore consapevolezza dei problemi sociali, e dal lavoro che servirebbe a risolverli. Parlare del nome del femminismo è solo una scusa per non impegnarsi.
Rispetto alle disuguaglianze di genere oggi presenti nel nostro paese, quanto conta l’aspetto culturale?
L’aspetto culturale è quello più importante, perché se non si comprende la loro origine culturale, nessuna delle disuguaglianze può essere non solo eliminata, ma neanche avvertita come tale. Quella culturale è la sensibilità necessaria per rendersi conto che spesso si compiono discriminazioni, abusi e disparità non tramite la nostra espressa volontà, ma a causa di condizionamenti culturali che ci fanno agire in quei modi ingiusti, pensando che siano invece “normali” o “naturali”.
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Lo scopo è far diventare i discorsi sul genere, sulla parità,
su una visione non patriarcale della società
e delle abitudini qualcosa di meno eccezionale, di più quotidiano
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Come si può cambiare questa cultura?
I cambiamenti culturali sono sempre avvenuti attraverso l’azione di più componenti sociali: bisogna innalzare il livello del dibattito pubblico, aumentare l’offerta e la diffusione di informazioni corrette, sensibilizzare l’opinione pubblica con appelli e testimonianze, creare un circuito editoriale e autorale di persone preparate. Solo con un’azione congiunta si può apportare un reale cambiamento.
Può fare degli esempi di buone pratiche che ha sperimentato in prima persona?
Certamente nella mia esperienza quello che ho visto funzionare molto è organizzare spazi e momenti di discorso collettivo intorno ai temi di genere. Invitare persone a parlarne in un confronto aperto con le domande da parte dei partecipanti, e fare in modo che questi momenti siano periodici, anche senza “ospiti”, solo per parlarne insieme. Lo scopo è far diventare i discorsi sul genere, sulla parità, su una visione non patriarcale della società e delle abitudini qualcosa di meno eccezionale, di più quotidiano.