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Parità e termine di paragone

La disuguaglianza di genere è questione complessa, ma la sua rappresentazione e le azioni che vengono messe in atto per mitigarla, possono non sempre risultare adeguate. Ciò può dipendere dal fatto che essa viene affrontata partendo da un termine di paragone: il genere maschile. Tutte le misure messe in atto per ridurre questa disuguaglianza partono da questo approccio: si valuta il cosiddetto gap rispetto al punto di riferimento, l’uomo, e da lì si adottano le necessarie misure atte a ridurlo. Ma siamo sicuri che rendere le donne uguali agli uomini sia la cosa giusta? Non contiene, forse, questa stessa modalità di agire, una diseguaglianza concettuale che rischia di mantenere intrinsecamente attiva la diseguaglianza?

Un approccio più analitico potrebbe consentire di affrontare la questione tenendo in considerazione molteplici prospettive. Una prospettiva è quella dei diritti. Non vie è dubbio che, sotto questo aspetto, la parità di genere, peraltro sancita dalla nostra Costituzione quando parla di giustizia, di lavoro, di matrimonio, di rapporto tra Stato e cittadino, sia un obiettivo ineludibile. La parità di genere è, in questo caso, semplicemente giusta, e ogni discriminazione lede diritti che sono acquisiti per il solo fatto di essere cittadini e esseri umani. Su questo terreno la questione si concentra sul come rendere questi diritti effettivamente esercitabili, ed enormi passi in avanti sono stati fatti, anche se c’è ancora molto da fare. Ma il percorso è tracciato, condiviso e netto.

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La parità di genere è semplicemente giusta,
e ogni discriminazione lede diritti
che sono acquisiti per il solo fatto
di essere cittadini e esseri umani.
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La seconda prospettiva è quella culturale. E qui siamo più lontani da una situazione accettabile. Anche perché le azioni che vengono messe in campo sono spesso incomprensibili, se non addirittura ridicole. Un esempio su tutti. Un noto programma televisivo, che aveva in palinsesto la presenza di due ragazze che non avevano alcun ruolo se non quello di puro corredo in una logica chiaramente maschilista, ha pensato bene di proporre una “rivoluzione”: al posto di due ragazze, sono stati messi un ragazzo e una ragazza, ovviamente entrambi di bella presenza. Se la parità di genere, sul piano culturale, viene agita mantenendo intatte le aberrazioni esistenti, e, quindi, nella fattispecie, estendendo l’inutilità ad entrambi i generi, anziché eliminare l’inutilità che mortifica (uomini e donne), allora sarà quasi impossibile realizzare un reale cambiamento. La strada da percorrere, sul piano culturale, è ancora molto lunga, perché è difficile rompere degli schemi mentali a cui ci siamo da troppo tempo assuefatti.

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Se la parità di genere, sul piano culturale,
viene agita mantenendo intatte le aberrazioni esistenti
allora sarà quasi impossibile realizzare un reale cambiamento
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C’è infine una terza prospettiva, quella della comunità. In questa prospettiva, la diversità, anziché essere un problema, dovrebbe essere vista come un’opportunità per la società. In questo caso, il tema non è rendere uomini e donne uguali, in un progressivo processo di allineamento. Se la biodiversità è, come oramai generalmente condiviso, una ricchezza, allora la diversità di genere, nell’ovvio rispetto dell’uguaglianza nei diritti e nella cultura, va preservata come una opportunità, o meglio, come un equilibrio che la natura ci offre e impone. L’uguaglianza non presuppone la eliminazione delle diversità: al contrario, l’uguaglianza, quella sostanziale, è un vestito che protegge, scalda ed esalta la diversità che è in ciascuno di noi. Non è una uniforme, ma un vestito su misura.

di Giorgio Righetti, Direttore generale Acri

 

Dal numero marzo – aprile della rivista Fondazioni, leggilo intero qui