Intervista ad Adriano Favole, antropologo
per Fondazioni – settembre 2021
Adriano Favole è professore ordinario di Antropologia culturale presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. Recentemente ha scritto con Marco Aime e Francesco Remotti il libro “ll mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione” (UTET, 2020).
Quando si parla di “educazione” si pensa molto spesso alla scuola e agli scolari, ma è possibile cessare di “imparare” dopo gli studi? L’educazione riguarda davvero solo i giovani?
L’educazione, nella prospettiva degli antropologi, è un processo di inculturazione e di trasformazione che ovviamente non ha fine. Per questo è fondamentale coltivare tutte le relazioni che ci consentono di imparare e permettono la trasmissione di conoscenza. Il Covid ha terribilmente peggiorato un problema che già andava avanti da una ventina di anni cioè l’indebolimento del nostro tessuto associativo. A questo dobbiamo reagire ricreando spazi di associazione culturale. Registriamo questa intervista a ridosso del Festival Dialoghi sull’Uomo, che è uno dei tanti festival che stanno resistendo e che si dimostrano luoghi dove si trasmette cultura e si fa educazione. Quindi è vero che il processo di educazione non si ferma alla scuola ma è anche vero che se non rafforziamo gli spazi e i tessuti di disseminazione della conoscenza anche fuori dagli edifici scolastici non abbiamo modo di continuare il processo di inculturazione. Il processo non cessa ma diventa molto più difficile senza questi spazi. Esiste già la comunità educante o va costruita? Partirei proprio dall’analisi della “Comunità” che è un concetto che suona positivo, ma a volte diventa così forte che esclude chi non ne fa parte. Io credo che noi viviamo un’epoca in cui la distinzione è diventata qualcosa di eccessivo. Per distinzione intendo la volontà di ribadire costantemente la differenza tra noi e gli altri. Intendiamoci, la differenza è fondamentale nelle faccende umane e soprattutto in quelle naturali quindi è fondamentale riconoscerla anche nelle cose più piccole. Però noi viviamo in un periodo storico in cui facciamo fatica a elaborare delle categorie che ci tengano insieme. Se pensiamo all’articolo 2 della costituzione, la libertà degli individui deve essere garantita ma insieme alla solidarietà con gli altri. In questi tempi facciamo un poco fatica anche nel linguaggio a trovare termini inclusivi perché scambiamo il rispetto delle differenze con l’esigenza ad ogni costo di esprimere micro-differenze. Questo ci spinge verso un individualismo che ci mette in crisi. Per questo in tutte le comunità, comprese quella educante, dobbiamo riprendere concetti che ci tengano insieme. Per esempio bisogna riacquisire un senso di responsabilità che sia rivolto a chi vive con noi ora ma anche a chi arriverà in futuro. Senza la responsabilità, il solo senso di comunità rischia di tradursi in una appartenenza cieca e si rischia di creare comunità chiuse o non-comunità che sono anche più pericolose. Io credo che quello che ci viene raccontato soprattutto dai giovani è che si fa fatica a trovare luoghi, spazi e delle associazioni o comunità di cui far parte. Il nostro tessuto associativo è stato slabbrato da tanti processi che hanno teso ad individualizzarci.
L’Antropocene ha contribuito ad aumentare il sentimento individualista dei cittadini? Se sì, in che modo?
Io ribalterei la questione: per me l’Antropocene è il prodotto dell’individualismo. Non porre limiti all’azione dell’individuo ha portato lentamente verso questo Antropocene dove le persone agiscono come se non avessero una fine, senza pensare che ci siano generazioni di persone anche dopo di loro. Quindi si è arrivati a questo momento nel quale un certo tipo di essere umano rischia di mettere fine alla sua vita e alla vita sul pianeta più in generale. Kant diceva «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo.» Bisognerebbe oggi aggiungere “l’umanità di oggi e di domani”. C’è una nuova responsabilità che è quella delle generazioni a venire, allora le nostre azioni quotidiane e collettive dovrebbero sempre avere questa domanda di fondo: “Soddisfa un bisogno di oggi o anche quello delle generazioni future?” Secondo me abbiamo molto dimenticato la prospettiva di quelli che vengono dopo di noi ed è questo che porta all’Antropocene.
Spesso si ripongono le speranze di un cambiamento radicale nei più giovani ma se i più giovani sono i figli dell’Antropocene, saranno in grado di rivoluzionarlo? Come possiamo aiutarli?
Io ho scritto “Vie di fuga. Otto passi per uscire dalla propria cultura” (UTET, 2018) indagando proprio la nostra capacità di allontanarci dalla nostra cultura. Abitare una cultura o un tempo non significa automaticamente esserne dei cloni o dei prigionieri. Ci sono tante strade che ci portano lontano; le crisi, ad esempio, ci portano a riflettere su come siamo e come vorremmo essere diversi, poi c’è quel fenomeno che accade sempre nelle faccende umane che è la contrapposizione generazionale per cui i figli tendono ad essere diversi dai propri genitori. Ci sono dinamiche nelle faccende umane che rendono possibile il distaccamento dall’epoca in cui si vive e la presa di coscienza di non volere essere uguale ai propri tempi. Per questo motivo io non vedo un problema culturale. Detto questo io non so cosa riusciranno ad ottenere i ragazzi di oggi, se prendiamo i movimenti per un nuovo ambiente vediamo che sono completamente diversi dall’ambientalismo degli anni 70 perché non vedono una natura separata dall’essere umano ma parlano di coesistenza. Il virus ha impedito le piazze e gli incontri: dobbiamo sperare che quei fermenti riprendano. Abbiamo bisogno soprattutto, nell’ambito della transizione ecologica, di un dibattito che ad oggi è completamente insufficiente, anche il virus sembra aver allontanato il discorso da quella che è la sfida più grande che noi non stiamo affrontando. Transizione ecologica non significa sostituire i materiali fossili con qualcos’altro, ma rivoluzionare il nostro rapporto con gli altri esseri viventi. Dobbiamo mettere fortemente in discussione un modello di sviluppo e di consumo ma su questo mi sembra che non stiamo facendo nulla per alimentare il dibattito.
Secondo lei, nel nostro mondo, è possibile recuperare il concetto di “sospensione” alternativo a quello di progresso e sviluppo inarrestabile?
Come abbiamo provato a raccontare nel libro “ll mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione” ci sono delle società che hanno adottato delle forme di sospensione volontarie dell’attività produttiva, anche molto radicali, come modello culturale e non come cosa che capita e sconvolge. A volte queste società ci sembrano esotiche, ma in realtà non occorre andare molto lontano. Noi abbiamo mantenuto aspetti come la pausa sabatica o domenicale e questa è una piccola traccia che dimostra che noi non produciamo sempre e comunque, nella nostra cultura troviamo momenti di sospensione. Io credo che nessuna pratica culturale può essere applicata altrove in modo meccanico, quindi dobbiamo sicuramente adattare la sospensione alla nostra vita contemporanea ma non possiamo sostenere che la sospensione sia impossibile nelle nostre società come succede oggi. Prendiamo le biciclette elettriche: sono arrivate nel momento in cui ci stiamo rendendo conto che nelle città ci sono troppe automobili e troppo traffico. Sembrava che potessimo abbracciare un modello più “lento” che ci desse più tempo anche nei nostri spostamenti e invece abbiamo riempito le città di questi motorini – non posso chiamarle biciclette – e di monopattini anch’essi elettrici. Questo è un rifiuto della sospensione, è un esempio di come noi non riusciamo a fare praticamente nulla in direzione di una sospensione e della nostra difficoltà a praticare una rivoluzione ecologica vera.