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Alla Penny Wirton gli studenti fanno gli insegnanti | Eraldo Affinati

Intervista a Eraldo Affinati, presidente dell’Associazione Penny Wirton
per Fondazioni, ottobre 2021

Eraldo Affinati, scrittore e insegnante, è il fondatore della Penny Wirton, una scuola gratuita di italiano per immigrati.

La scuola italiana per lei favorisce l’uguaglianza e l’inclusione?

Credo che la scuola italiana sia, sulla carta, una delle più inclusive al mondo. In particolare, l’articolo 34 della Costituzione ci chiede di assumere questa impostazione. Poche legislazioni come la nostra sono così aperte e innovative, ad esempio sul tema del sostegno agli alunni svantaggiati. Tuttavia, la vecchia mentalità selettiva torna a riproporsi a ondate intermittenti, continuando a rappresentare il paradosso segnalato a suo tempo da don Lorenzo Milani, relativo a un’istruzione interessata soltanto alle cosiddette “eccellenze”, che sarebbe simile a un ospedale teso ad accogliere i sani e non i malati. Il tempo drammatico della pandemia ha riproposto il vecchio tema dell’ingiustizia sociale mostrando a tutti il lato meno rassicurante del progresso tecnologico: gli allievi che non disponevano di ampi spazi domestici e adeguate connessioni di rete sono stati pesantemente colpiti, fino al punto di dover abbandonare la frequenza scolastica.

Da dove nasce l’idea della Penny Wirton? Chi sono gli studenti? Chi gli insegnanti? Quale è l’approccio educativo adottato?

La scuola Penny Wirton, che prende il suo nome dall’omonimo libro per ragazzi composto da Silvio D’Arzo, venne fondata a Roma quattordici anni fa, da me e mia moglie, Anna Luce Lenzi, per insegnare gratuitamente la lingua italiana agli immigrati. Senza classi, senza voti e, possibilmente, senza burocrazia. Alla prima sede capitolina si sono aggiunte, nel tempo, molte altre scuole in tutto il territorio nazionale: in questo momento sono oltre cinquanta, da Messina a Udine, con un’appendice anche in Ticino. Si tratta di associazioni di volontariato che, nel pieno rispetto delle singole autonomie, si richiamano al nostro stile educativo, basato sul rapporto uno a uno fra docente e studente, firmando un patto d’intesa ed entrando così a far parte della grande famiglia delle Penny Wirton, che coinvolge ormai migliaia di persone. Il principale strumento didattico utilizzato è il manuale di apprendimento “Italiani anche noi”, pubblicato dall’editore Erickson. Due volumi, libro rosso e libro blu: manuale ed eserciziario. Abbiamo anche un notevole apparato di ludodidattica: giochi, mosaici, parole colorate. Molti dei nostri studenti sono analfabeti nella lingua madre, hanno quindi bisogno di un approccio specifico. Credo sia importante segnalare il coinvolgimento degli studenti italiani che svolgono alla Penny Wirton il loro tirocinio formativo (Pcto – Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, l’ex Alternanza Scuola Lavoro). Noi formiamo gli scolari delle secondarie di secondo grado (licei, istituti tecnici e professionali), facendo in modo che possano insegnare l’italiano ai loro coetanei immigrati. Si tratta di un’esperienza molto significativa perché questi adolescenti sperimentano, da protagonisti, una scuola nuova e quando tornano in aula si rendono conto dell’anacronismo della vecchia istruzione di stampo novecentesco, basata sullo schema: lezione frontale, interrogazione, voto e diploma.

Che effetto ha avuto la pandemia e la DAD sui percorsi educativi dei ragazzi?

Le lezioni delle Penny Wirton sono continuate a distanza, grazie agli strumenti tecnologici disponibili. Nel migliore dei casi i nostri studenti, ospiti nei centri di accoglienza, avevamo le piattaforme digitali, ma spesso ci potevamo basare soltanto su WhatsApp. Abbiamo fatto di necessità virtù, con risultati superiori alle nostre attese. Siamo riusciti a coinvolgere persone assai distanti le une dalle altre mettendo in relazione regioni lontane. Potrei fare tanti esempi: un ragazzo disabile siciliano ha insegnato italiano a un suo coetaneo egiziano emigrato a Torino; un profugo iracheno sordomuto ha fatto lezione grazie a una ragazza esperta nella lingua dei segni; una mamma africana ha imparato i rudimenti essenziali della nostra grammatica leggendo sullo schermo col bambino in braccio. Credo che tutti siamo usciti arricchiti, anche se indubbiamente segnati. Ora abbiamo ripreso in presenza, nel pieno rispetto delle norme di sicurezza, con gruppi più contenuti rispetto a prima, quando nella nostra grande sala romana a Casal Bertone, che la Regione Lazio ci mette a disposizione, eravamo circa centocinquanta persone. Ma siamo comunque contenti.

Per lei è utile cambiare l’approccio sul tema della scuola considerando tutta la comunità educante responsabile della formazione dei giovani?

Ritengo indispensabile coinvolgere le famiglie e tutte le più importanti agenzie educative del Paese, per evitare che la scuola resti isolata, quasi fosse un centro specializzato distante da noi. Soprattutto, gli insegnanti non dovrebbero sentirsi isolati, in quanto, in particolar modo oggi, sono chiamati ad esercitare una grande responsabilità rispetto alla rivoluzione digitale che stiamo vivendo: si tratta di ripristinare le gerarchie culturali nel grande mare della rete mostrando ai ragazzi che l’informazione è solo un grado preliminare della conoscenza. In mezzo passa l’esperienza della realtà.

Da Fondazioni, ottobre 2021