Editoriale di Antonella Palumbo, docente Università Roma Tre
per Fondazioni – giugno 2021
La crisi pandemica ha investito il mondo del lavoro con forza. A oltre un anno dall’esplodere della crisi, l’aumento contemporaneo, rispetto al periodo pre-pandemico, della disoccupazione e dell’inattività rivela il dato fondamentale di un peggioramento generale delle opportunità occupazionali. Le riaperture hanno visto una crescita recente dei contratti temporanei, invece fortemente penalizzati nella fase iniziale, mentre quelli permanenti continuano a subire una lenta erosione. Come nel periodo pre-pandemico, le donne hanno indicatori nettamente peggiori: meno occupazione, più disoccupazione e più inattività, e lo stesso vale, con un divario ancora maggiore, per i giovani.
La crisi ha acuito squilibri antichi. Un fenomeno preoccupante, negli Stati Uniti, riguarda la scelta di ritirarsi dal mercato del lavoro di una parte della forza lavoro femminile, stretta tra salari troppo bassi e assenza di servizi di supporto, in particolare per la cura dei figli. Segnali preoccupanti in questa direzione, pur limitati quantitativamente, si erano già visti anche in Italia prima che si manifestassero gli effetti della crisi pandemica. Un portato della crisi è la crescita della povertà, non solo fra chi ha perso la propria occupazione. Quasi 3 milioni di lavoratori, sottolinea il rapporto Censis, percepiscono un salario orario inferiore a 9 euro l’ora, e troppi lavori non garantiscono orari settimanali sufficienti ad assicurare un reddito dignitoso. La risposta pubblica gioca un ruolo essenziale di fronte a una crisi così violenta. Essa è stata forte e tempestiva nella fase iniziale e si è concentrata, in Europa, sulla tutela dei posti di lavoro.
A lungo termine l’occupazione può però essere sostenuta solo se l’economia si avvia su un sentiero di crescita duratura. Nella inevitabile debolezza della domanda privata ed estera, una forte domanda pubblica è indispensabile per riportare l’economia su un sentiero di crescita. Ma si tratta di una condizione necessaria, non sufficiente per una ripresa equilibrata. La pandemia, si è detto, ha acuito disuguaglianze preesistenti e ha messo in evidenza mali radicati. Un errore fondamentale consisterebbe nel pensare che le opportunità per le categorie che soffrono strutturalmente di maggiore precarietà, salari bassi, lavori poveri e carriere intermittenti si creino redistribuendo tale precarietà su tutta la popolazione. La vera urgenza, insieme alle politiche per la crescita, è affrontare in modo sistematico la questione salariale e quella delle tutele contrattuali dei lavoratori.
È così che donne, giovani e categorie più esposte possono entrare in una dinamica salariale e lavorativa virtuosa piuttosto che in trappole della povertà. Ed è l’esistenza su larga scala di lavori stabili e ben remunerati che rende possibile la conciliazione tra il lavoro di cura e il lavoro per il mercato – una conciliazione che, auspicabilmente, sia finalmente una questione collettiva piuttosto che squisitamente femminile. Un ruolo importante può giocarlo il rafforzamento dell’impiego pubblico, come in parte prevede anche il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un piano corposo di assunzioni pubbliche, oltre a rafforzare la pubblica amministrazione in settori strategici, può anche operare in maniera rilevante per fissare standard salariali e lavorativi che facciano da riferimento per tutto il mercato.
Da Fondazioni, giugno 2021