Intervista a Samantha Cristoforetti, Astronauta, ingegnere e pilota
per Fondazioni aprile 2020
Centonovantanove giorni nello spazio. Non è il titolo di un film d fantascienza, ma la storia di Samantha Cristoforetti, prima donna italiana negli equipaggi dell’agenzia spaziale europea che nel 2014-2015 ha conseguito il record europeo e il record femminile di permanenza nello Spazio in una singola missione. Astronauta, ingegnere e pilota dell’accademia aeronautica dichiara di non sentirsi una scienziata «sono solo un’operatrice, il mio lavoro è manuale a suon di colpi di cacciavite e chiave inglese». Dalla missione ISS Expedition 42/Expedition 43 del 2014-2015 sono passati tanti anni, c’è un po’ di nostalgia? Oggi sono proiettata più verso il futuro più che in una dimensione di nostalgia. Soprattutto perché qualche mese fa è stata confermata un’opportunità per il Paese, per tutta l’Italia, ossia mandare nuovamente un astronauta nello Spazio e sembrerebbe che anche stavolta toccherà a me. Inizia nuovamente il mio conto alla rovescia anche se ancora non so con esattezza quando avverrà questa missione visto che ci sono ancora dei nodi da sciogliere relativi anche alla disponibilità di nuove astronavi in sviluppo negli USA. In ogni caso, spero entro la fine del 2022 di poter partire. Sarà una nuova missione sulla stazione spaziale internazionale simile a quella che feci nel 2014-2015. Sarà un po’ un “ritorno a casa”, o meglio alla mia seconda casa nello Spazio.
Questa volta le attività orbitali fuori dalla navicella saranno possibili?
La possibilità di uscire dalla navicella è frutto di mille fattori imprevedibili. Mi auguro che la prossima missione me lo consenta, mi sono addestrata tanto l’ultima volta e farò un duro addestramento anche in previsione della prossima missione. Indipendentemente se le attività orbitali siano previste oppure no, comunque l’addestramento si fa ed è la parte più impegnativa e faticosa. Tuttavia, se c’è una cosa che ho imparato dalla precedente missione è non aspettarsi nulla perché in queste situazioni può cambiare tutto da un momento all’altro.
Lei parla di fatica, possiamo solo immaginare quanto possa essere dura la preparazione per affrontare una missione spaziale. Eppure, quando “sulla Terra” vediamo in televisione le immagini di voi astronauti fluttuare senza forza di gravità, la cosa a cui pensiamo è “leggerezza”. Si può parlare di una “pesante leggerezza”?
Proprio su questo ossimoro ho tenuto di recente una lezione magistrale all’Università di Bologna che ho voluto chiamare “Dalla Terra allo spazio in poche parole” incentrata proprio sul binomio peso-leggerezza. Questo binomio può avere un’interpretazione simbolica: all’addestramento impegnativo della durata di diversi anni alimentato da costanti valutazioni e considerazioni, segue l’esperienza nello Spazio ed è quello il momento della leggerezza, quello è il momento in cui puoi goderti i frutti del lavoro. Nel mondo militare si usa tanto questa frase “train hard fight easy” che vuol dire: impegnati e resisti in addestramento perché solo così la battaglia sarà più facile.
Può raccontarci la giornata tipo di un astronauta nello spazio?
Prima di tutto ci tengo a dire che gli astronauti sono spesso visti come “grandi scienziati”, nel mio caso non mi sento tale, sono prima di tutto un ingegnere e sono stata pilota militare. Ma anche gli scienziati stessi quando diventano astronauti rinunciano a quel background e diventano degli “operatori”; il nostro lavoro è prima di tutto manuale, lavoriamo di cacciavite e chiave inglese. Per quello che riguarda la nostra giornata tipo (tra una riparazione e l’altra), è tutto scandito rigorosamente in una rigida timeline dalla Terra. Paradossalmente, la cosa che manca di più ad un astronauta non sono i materiali, l’equipaggiamento, le tecnologie, ma il tempo! Infatti, quello che in gergo scientifico viene chiamato “crew time”, tempo dell’equipaggio, è veramente poco per fare tutte le operazioni che vengono programmate e sfruttare al meglio il tempo nello spazio. Quindi, c’è uno sforzo enorme di pianificazione per fare in modo che la giornata sia organizzata in maniera il più possibile efficiente. Il nostro compito è quello di seguire una timeline che scorre su un’agenda elettronica e non nego che spesso questa procedura crei situazioni di ansia perché, soprattutto all’inizio, non è semplice integrare tutto quel che si è imparato in addestramento nel lavoro a bordo.
L’equipaggio di una missione spaziale è composto da astronauti proveniente da vari paesi. Come si vive a bordo? Ci sono talvolta tensioni legate anche a questioni culturali? E come vengono vissuti i conflitti che avvengono sulla Terra da quell’altezza?
La stazione spaziale è molto grande, l’asse centrale della stazione spaziale dove è possibile abitare è lungo più di 80 metri e ci sono una serie di moduli grandi e piccoli dove c’è spazio per tutti. Per la convivenza le differenze culturali non sono particolarmente rilevanti, questo perché prevale il percorso comune: siamo tutti astronauti, arriviamo tutti da un certo background, l’esperienza comune generale prevale su tutto il resto. Certamente possono capitare talvolta incomprensioni, ma nella maggior parte dei casi dipendono dalle difficoltà linguistiche. Questo succede soprattutto tra americani e russi, mentre noi europei siamo più bravi nella comunicazione tant’è che spesso veniamo scelti proprio come intermediari. Anche per quel che riguarda i conflitti a Terra prevale un atteggiamento di rispetto e tolleranza reciproca, peraltro quando sono partita per la missione del 2014-2015 era una fase politica molto tesa, era in corso la crisi della Crimea, ma questo non ha generato tensioni, è sempre prevalso un sentimento di comunità.
Come è stato il rientro dopo tanti mesi? Nel suo libro “Diario di un’apprendista astronauta” ha scritto che tornare a casa è “precipitare come stelle comete”.
Sì, la sensazione è quella di precipitare. Mi ricordo intensamente alcune sensazioni. Prima fra tutte la percezione completamente sfasata del peso e si tratta di una componente neurologica. Durante la discesa l’atmosfera ti frena e percepisci come un peso che ti schiaccia sul seggiolino. Io ricordo che più scendevamo e più mi sentivo pesante anche se le strumentazioni segnalavano che si percepivano pochi decimi del proprio peso effettivo. Poi arriviamo a Terra e per alzarmi dal seggiolino ho calcolato male lo sforzo muscolare rispetto al mio peso effettivo e dunque sono caduta. Non riuscivo ad attivare i muscoli per fare quell’azione, ma l’azione muscolare in realtà è sempre la stessa si tratta di una condizione neurologica: il cervello deve riabituarsi a riattivare le catene muscolari. Questo in un paio di giorni si risolve. Poi c’è la parte vestibolare, il sistema dell’equilibrio è notevolmente alterato, ma in questo caso la percezione è molto soggettiva perché dopo un paio di giorni a me personalmente sembrava di aver recuperato i valori di equilibrio normale, invece dopo un esame ho scoperto che non era affatto così. Infine, il sistema cardiovascolare: una volta tornati sulla Terra deve riabituarsi a pompare contro la gravità e i primi giorni percepisci una stanchezza molto intensa e anche a riposo il polso risulta altissimo.
Lei è nata in Italia e poi ha vissuto negli Usa e in tanti altri Paesi. Ha sposato un francese e vive in Germania. A quale luogo si sente di appartenere?
Casa è dove sono io con la mia famiglia. Ma comunque mi sento molto italiana; penso che il Paese dove si nasce, dove si passa l’infanzia e dove si frequentano le prime scuole sia il posto d’appartenenza. Questo lo penso perché vivendo all’estero quando incontro altri italiani la complicità è fortissima. Questo non vuol dire non mi trovi bene in Germania, dove vivo da 10 anni, ma il posto dove hai passato l’infanzia lascia il segno.
Che cosa avrebbe fatto se non avesse fatto l’astronauta?
Si diventa astronauti venendo già da un lavoro, nessuno studia o va all’università per diventarlo. Nel mio caso ero in aeronautica militare all’inizio della carriera e quando è uscita questa selezione dell’Agenzia Spaziale Europea, ho fatto domanda. Se non avessi fatto l’astronauta avrei continuato a fare il pilota militare. Anzi, un po’ di rammarico ce l’ho per aver lasciato quel percorso perché avevo appena iniziato. Ma comunque non mi pento mai delle scelte fatte. Non ho mai messo in discussione la strada, questo non mi è mai successo nella vita perché ogni scelta fatta è motivata da ragioni pesate e valutate.
Dalla rivista Fondazioni marzo-aprile 2020