Intervista a Florinda Saieva, fondatrice di Farm Cultural Park
per Fondazioni febbraio 2020
Dieci anni fa li hanno presi per pazzi, ma oggi si sono dovuti ricredere. L’idea di creare un centro permanente dedicato all’arte contemporanea in un paese in provincia di Agrigento doveva sembrare alquanto visionario. Invece oggi è una sorprendente realtà, che ogni anno attira dall’Italia e dall’estero oltre 120mila visitatori e che ha fatto decuplicare l’offerta di posti letto in città. Siamo a Favara, un paese di 30mila abitanti, a 6 km dalla Valle dei Templi.
Qui nel 2009 Florinda Saieva e suo marito Andrea Bartoli hanno dato vita a “Farm Cultural Park” un centro culturale che ha ripristinato alcuni edifici abbandonati del centro del paese e, attraverso il meccanismo delle residenze artistiche, ha ospitato alcuni artisti internazionali, che hanno realizzato opere “site specific”, poi diventate parte integrante del paesaggio cittadino. Questo, insieme a un fitto calendario di esposizioni ed eventi culturali, ha rigenerato il paese, trasformandolo in un polo di attrazione turistica. «Da mio padre ho preso l’amore per l’architettura, mio marito è appassionato di arte contemporanea – ci dice Florinda Saieva – e questo ci ha portati a vivere a Parigi, dove potevamo visitare mostre, musei, fiere e centri culturali. Però, quando ci siamo interrogati su dove volevamo costruire il nostro futuro e dove far crescere le nostre figlie, abbiamo preferito tornare in Sicilia e restituire alla nostra città tutto quello che avevamo imparato fuori».
Farm è nato come un centro culturale, ma oggi è «un polmone urbano: un luogo che ridà ossigeno alla città e che ha restituito ai cittadini la dimensione della possibilità». Questo della possibilità è un concetto a cui Saieva tiene moltissimo. Perché è cresciuta in una città in cui non c’era – e non c’è tutt’ora – nemmeno un cinema e la vita e gli stimoli culturali erano circoscritti al capoluogo Agrigento. Oggi, i giovani si trovano di fronte la realtà di un paese immobile, che rischia la decadenza, e sono tentati di abbandonarlo per cercare, legittimamente, fortuna altrove. Questo però rischia di continuare ad alimentare una spirale perversa per cui nessuno ha mai voluto investire nella propria città, né si è reso protagonista in prima persona di un’operazione di riscatto.
«Noi abbiamo voluto andare controcorrente – ribadisce Saieva –: investire nella nostra città, restituendo fiducia ai nostri concittadini. Siamo partiti con un obiettivo ambizioso: trasformare Favara nella seconda attrazione della Sicilia meridionale, dopo la Valle dei Templi! Il sito archeologico di Agrigento dista pochissimi chilometri e abbiamo immaginato che il flusso turistico potesse essere facilmente attratto verso Favara». Così, l’idea imprenditoriale di due favaresi ha creato le condizioni perché anche molti altri concittadini iniziassero ad attivarsi per accogliere l’inaspettato flusso di visitatori. «Forse la comunità di Favara non ha compreso completamente il lavoro culturale che sta realizzando la nostra iniziativa, però l’impatto economico che ha avuto sulla città è sotto gli occhi di tutti. E il Farm non è neanche il principale beneficiario del ritorno economico dell’operazione».
Ora, a dieci anni dall’avvio di questa straordinaria avventura, è tempo di un primo bilancio e di immaginare il futuro. Il ruolo giocato dal privato per la riattivazione della comunità può essere uno spunto per crescere ancora. Così, tra pochi mesi, nascerà Spab – Società per azioni buone: un’impresa sociale aperta a tutti i cittadini di Favara, che potranno diventare soci della città, acquistando azioni e conferendo immobili per usi sociali. «Così gli abitanti potranno iniziare a ripensare insieme il futuro della propria città, diventandone ognuno proprietario di un pezzo. Il vero successo di Farm è suscitare il senso di appartenenza: far riappropriare la comunità della propria città!».
E il successo di questo spazio è tale che oggi, oltre alle residenze artistiche, attorno al Farm gravitano anche una mostra biennale di arte contemporanea, un festival di architettura, una scuola di politica e leadership per giovani donne, una scuola di architettura per bambini. E proprio quest’ultimo comincia ad essere esportato fuori dal paese.
Infatti, all’interno delle iniziative finanziate dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, in tre scuole a Favara, Palermo e Roma è partito il progetto “P.arch – Playground per architetti di comunità”, che coinvolge i bambini in piccole attività di rigenerazione urbana del territorio. Si compone di laboratori di architettura, urbanistica, “storytelling territoriale” e “gaming urbano”. Accompagnati dagli esperti, i bambini ripensano lo spazio della città in cui vivono, traducono i loro desideri in realtà realizzabili e trasformano i luoghi della loro quotidianità con piccoli interventi di riqualificazione urbana. «Così facendo si riappropriano della città e iniziano a sentirla come uno spazio veramente loro, di cui prendersi cura»
Dalla rivista Fondazioni gennaio – febbraio 2020