Testimonianza di Luigino Bruni, economista
per Fondazioni aprile 2020
Che la disuguaglianza sia qualcosa di tremendamente serio e concretissimo lo dice anche quanto sta avvenendo con la pandemia coronavirus. Perché se è vero che siamo tutti sulla stessa barca, che, come in ogni grande epidemia, si ammala anche Don Rodrigo insieme ai contadini delle campagne milanesi, è ancora più vero che trascorrere il lockdown in una villa con parco interno, palestra e piscina coperta è ben diverso dal trascorrerlo in un appartamento di 50 metri quadri in una periferia di Roma, o in una favela di Rio.
Per non parlare delle corsie preferenziali per i pazienti “solventi” delle cliniche private, che non sono state cancellate dall’emergenza sanitaria. La disuguaglianza economica è sempre stata diseguaglianza nell’istruzione, nella salute, nelle opportunità di carriera, e quando supera una soglia critica le opportunità di pochi bloccano quelle di molti. Infatti la disuguaglianza se rimane entro limiti socialmente accettabili è anche un fattore positivo di stimolo per coloro che trovandosi ai piedi della piramide hanno l’incentivo ad impegnarsi nella speranza reale che domani potranno stare meglio dei loro genitori. Era questa la situazione nella quale si è trovata l’Italia nella seconda metà del XX secolo, fino a quando, anche da noi, la diseguaglianza ha iniziato a crescere raggiungendo il livello di paesi tradizionalmente più tolleranti nei confronti della disuguaglianza. Infatti, i paesi cattolici sono meno disposti, rispetto a quelli di cultura protestante, ad accettare una diseguaglianza elevata.
La visione cattolica del Bene comune, della società come corpo, ha generato anche un sistema sociale che ha cercato di includere i “vinti”. Il mondo protestante (gli US in modo particolare) ha invece confidato sempre di più nella competizione economica e sociale, sulla base dell’idea che il perdente nella concorrenza sia un colpevole. La povertà come colpa non è invece una nota dell’umanesimo cattolico, che ha molti difetti ma non quello di condannare il povero in quanto maledetto. La disuguaglianza si combatte se e fino a quando la povertà non è vista come colpa. Su questo terreno molte cose stanno cambiando in tutto il mondo, da quando ha preso piede l’ideologia meritocratica.
La meritocrazia, al di là delle buone intenzioni di molti dei suoi proponenti, di fatto sta diventando la legittimazione etica della disuguaglianza. A quella diseguaglianza combattuta, almeno in Europa, come un male, è stato sufficiente trovarle un nome più seducente (meritocrazia), e da vizio è diventata virtù. Perché, a guardarla bene, la meritocrazia si fonda su un dogma essenziale: che il talento sia un merito. Se considero i miei talenti come meriti allora è giustificato e doveroso remunerare i lavoratori in base ai loro meriti diversi, e così far sì che la disuguaglianza nei talenti di partenza si amplifichi molto durante la corsa della vita. Dovremmo invece tener ben presente che i talenti sono, al 90%, eredità, destino, patrimonio (dono dei padri: patres munus), sono frutto della vita, della famiglia dove sono nato, del Paese che mi ha fatto o no studiare, degli incontri che ho avuto, e molto dalla fortuna e dalla sfortuna.
Certo, c’è un 10% di impegno, ma anche la capacità di impegnarmi per custodire e trafficare i miei talenti è in massima parte dono – la povertà è anche incapacità soggettiva e oggettiva di far fiorire i talenti. E se il talento è inteso come merito allora il non-talento è demerito, e la povertà è colpa. L’ultima istituzione di welfare state sarà spazzata via quando l’ideologia meritocratica avrà convinto l’intera società della colpa dei suoi poveri.
Dalla rivista Fondazioni marzo – aprile 2020