Intervista a Flaviano Zandonai, sociologo
per Fondazioni febbraio 2020
Da oltre vent’anni si occupa di Terzo settore e impresa sociale, che studia come sociologo e facendo formazione. Recentemente, insieme a Paolo Venturi, ha scritto “Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società” (Egea). Abbiamo intervistato Flaviano Zandonai sul tema della rigenerazione comunitaria dei luoghi.
Dal suo ultimo libro emerge che il nuovo uso degli spazi abbandonati delle città può essere una chiave per rispondere meglio ad alcune delle principali sfide sociali della nostra epoca: ricostruire coesione, creare lavoro, promuovere mobilità sociale. Come si realizza tutto questo?
Si realizza per una concomitanza di fattori che questi spazi contribuiscono, nel bene e nel male, a far convergere. Da una parte l’abbandono, l’incuria, il sottoutilizzo generano un effetto catalizzatore rispetto a una pluralità di soggetti che altrimenti non avrebbero modo – e forse neanche volontà – di collaborare per risolvere un problema che, letteralmente, si palesa agli occhi di tutti. Dall’altra la necessità di “provare a fare qualcosa” da parte di questi stessi soggetti, a fronte dei limiti o dei fallimenti di soluzioni già attuate dalle istituzioni pubbliche, dalle imprese di mercato e, non da ultimo, anche dalle organizzazioni della società civile. In sintesi, si tratta di un intento di rigenerazione che riguarda sia la dimensione materiale dello spazio sia le aspirazioni di persone e organizzazioni a fare la differenza in un contesto in cui le vecchie soluzioni sembrano non funzionare più.
Il vero radicalismo della rigenerazione non sta nell’atto generativo, ma in quello della sua progressiva strutturazione
Beni confiscati alle mafie, edifici di enti religiosi non più utilizzati, demanio statale, caserme, stazioni dismesse possono essere trasformati in “hub comunitari”. Qual è il percorso?
Credo che il percorso muova, in primo luogo, dalla creazione di coalizioni unite da intenti di cambiamento sociale, perché l’azione trasformativa è la condizione per partire. Poi, credo che serva anche pensare a elementi organizzativi e di governance innovativi. Perché il vero radicalismo della rigenerazione non sta nell’atto generativo, ma in quello della progressiva strutturazione. Un caso interessante è, ad esempio quello della rigenerazione degli asset ferroviari per scopi sociali. Ci sono state alcune esperienze interessanti di riuso da parte di enti pubblici e soprattutto di enti di terzo settore e imprese sociali, in particolare per farne help center a favore di persone vittime di esclusione sociale. Ci sono stati però altri casi in cui il processo di rigenerazione è stato reso più complicato dal fatto che non si è riusciti a superare alcune rigidità rispetto alla destinazione d’uso, ad esempio, delle stazioni impresenziate. Il fatto che il trasferimento a enti sociali implichi il fatto di non potervi svolgere attività di natura commerciale limita il potenziale di rigenerazione non solo in termini economici, ma anche sociali. Non a caso ci sono alcune nuove esperienze in tal senso come quella della stazione ferroviaria di Rovereto in Trentino dove la sfida dell’ibridazione tra settori di attività e modelli economici è invece stata abilitata grazie anche alla capacità gestionale e di lobby dei soggetti gestori riuniti intorno al collettivo de La Foresta.
Come si valuta l’impatto sociale di un progetto di rigenerazione urbana? Non sarà il tempo di cominciare a parlare di “rigenerazione comunitaria”?
Esagerando un po’ si potrebbe sostenere che la rigenerazione o è comunitaria o non è. Come ricorda l’economista Rajan, le comunità sono ormai un terzo e imprescindibile pilastro delle nostre società e non semplicemente la stampella di Stato e mercato che interviene in caso di fallimento di questi ultimi. La valutazione dovrebbe concentrarsi, da un lato, sui processi di costruzione e gestione comunitaria, dall’altro dovrebbe considerare tutti gli effetti spillover inattesi che riguardano il contesto socio-economico nel quale il bene rigenerato insiste. Mi rendo conto che questo approccio mette un po’ in crisi i modelli razionali-causali di valutazione, in quanto presuppone una certa dose di inatteso e indeterminato che non può essere codificata ex ante per poi misurarne gli scostamenti. Però, d’altro canto, credo sia indispensabile accettare la sfida, altrimenti il rischio è che si valutino solo output o qualche outcome a corto raggio, perdendo il bello della rigenerazione, ovvero l’impatto sociale sulle comunità e sui contesti.
Il concetto di comunità non è neutro: esistono comunità chiuse e rancorose ed altre aperte e inclusive. Come si attivano processi di trasformazione verso l’apertura delle comunità?
Credo che la principale capacità comunitaria – sia essa autogestita o supportata – sia la gestione dell’apertura. Questo significa non essere impermeabili rispetto al contesto, ma neanche aperti in maniera indiscriminata, pena il rischio di veder disperdere ogni identità dei luoghi. Da questo punto di vista le soluzioni sono basate su due fattori fortemente interrelati: il primo è quello della regolazione e il secondo quello della “capacità conversazionale”. Le norme, infatti, scaturiscono e sono applicabili nella misura in cui esiste un tessuto di relazioni molto legato alla vita quotidiana che da una parte le fa scaturire e dall’altra le mette alla prova. Senza questo duplice meccanismo l’informalità non regge alla prova della crescita e, all’opposto, le norme diventano autoreferenziali.
Dalla rivista Fondazioni gennaio – febbraio 2020