Editoriale di Giorgio Righetti, direttore generale Acri
per Fondazioni – febbraio 2020
Che cosa vedrebbe un extra-terrestre in viaggio verso la terra? Vedrebbe, dapprima, una sfera blu, poi, avvicinandosi, degli agglomerati di luci, ampi e intensi in alcune zone, più piccoli e rarefatti in altre. Avvicinandosi ancora, inizierebbe a distinguere gli edifici, poi le macchine, poi le persone. Quello che non potrebbe vedere, se non scendendo dalla sua astronave e sperimentando la vita sulla terra, è la cosa più importante, anche se invisibile agli occhi. È ciò che qualifica una città, ciò che ne è la sua anima: la comunità. Gli edifici, le piazze, gli spazi verdi, il traffico, i servizi sono le risultanti dell’esistenza di una comunità e del suo agire nel corso degli anni o dei secoli. Solo immergendosi nella quotidianità, l’extra-terrestre riuscirebbe a scoprire l’intensità, la qualità e, soprattutto, la direzione delle relazioni di coloro che abitano uno stesso luogo e che li rende cittadini.
Ascoltando in rete, dopo una recente visita ai “Sassi” di Matera, alcune testimonianze di coloro che vissero lo sgombero da quella che allora venne definita una “vergogna nazionale”, si colgono due aspetti contraddittori. Da una parte, la qualità della vita materiale, sicuramente pessima nei Sassi e fortemente migliorata nei nuovi quartieri di destinazione. Dall’altra, la qualità delle relazioni, intense e solide nei Sassi e indebolite, sino all’annullamento, nei nuovi quartieri. Annullamento delle relazioni che significò anche un annullamento della identità e del senso di appartenenza. Annullamento, cioè, di una comunità. Ci può essere, senza dubbio, nei lontani ricordi dei protagonisti di quella pagina di storia, una sorta di nostalgia romantica, una visione edulcorata del passato, dell’infanzia, che, col passare dei decenni, ha addolcito la durezza della vita di allora e fatto riaffiorare solo le cose belle. Ma, indubbiamente, c’è anche una verità indiscutibile: una città senza comunità non è una città.
Lo aveva ben chiaro Adriano Olivetti quando, insieme a un gruppo multidisciplinare di esperti, diede vita all’esperienza del Borgo rurale de La Martella, dove sarebbe stata reinsediata una parte degli abitanti dei Sassi. Il progetto partiva dalla visione chiara che fosse indispensabile, non solo costruire gli edifici, ma ricostruire anche la comunità, senza la quale sarebbero andate perse le identità e le relazioni degli “sgomberati”. Ma la visione che ispirò quell’iniziativa non fu sufficiente a garantirne l’esito. La Martella è la storia di un esperimento fallito o, per meglio dire, fatto fallire dall’insipienza e dalle gelosie degli amministratori locali, interessati a mantenere il proprio dominio mediante politiche assistenzialistiche e clientelari. Il grande insegnamento di quella esperienza, che non dobbiamo mai dimenticare, come invece troppe volte è accaduto (si pensi alle Vele di Scampia, allo Zen di Palermo, al quartiere Librino di Catania, ma si potrebbe proseguire all’infinito) è che senza la sua anima, senza la comunità, la città non può esistere.
Dalla rivista Fondazioni gennaio – febbraio 2020