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Le città, vittime e carnefici dei cambiamenti climatici | Elena Granata

Testimonianza di Elena Granata, scrittrice e docente di Urbanistica
per Fondazioni ottobre 2019

 

Le città sono, al contempo, le prime responsabili e le prime vittime dei cambiamenti climatici. È qui che ci possiamo misurare con la disfatta, con gli errori del passato, con edifici e comportamenti dissipativi di risorse o possiamo agire una discontinuità profonda con il passato, trasformandole in laboratori di cambiamento effettivo. Le città consumano il 75% delle risorse naturali e sono responsabili di oltre il 70% delle emissioni globali di CO2 che, insieme a quelle di metano e di altri gas serra, determinano il surriscaldamento globale del pianeta, e da qui dipendono altre conseguenze planetarie, come lo scioglimento dei ghiacciai, la perdita di biodiversità e l’innalzamento crescente del livello degli oceani.

D’altro canto, è nelle grandi città, proprio per la particolare concentrazione di capitali, capacità, tecnologie e istituzioni, che si possono intercettare le risorse per le soluzioni più innovative in risposta a tali fenomeni. La città contemporanea è il luogo della sintesi imperfetta tra opposti: l’alto e il basso, il singolare e il molteplice, il poco e il troppo, il mescolato e il distinto. Qui si moltiplicano esperienze di partecipazione dal basso, di condivisione di tempi e di beni: gli orti urbani sono l’ultima moda a New York, come a Berlino, l’economia e la vita si organizzano in spazi di lavoro condivisi, dove sembra bello tutto quello che comincia con “co”, co-working, co-housing, co-marketing. Al di là di situazioni di isolamento e solitudine, crescono infatti le occasioni di cooperazione ed economie condivise (economia dello scambio, nuove forme di cooperazione, nascita di imprese sociali, vitalità di start up e imprese giovanili).

È proprio questa intrinseca contraddizione che rende le città il luogo più sensato dove oggi andare a capire come gira il mondo, dove le tensioni, i cambiamenti e le trasformazioni sono più evidenti ed accelerate. Perché la ricchezza culturale non nasce dalla purezza, dall’omogeneità, dalla somiglianza ma dalla mescolanza e dalla biodiversità. È il plurale, il molteplice alla base del significato stesso di ecosistema che produce la vita e la sua continua rigenerazione. È l’apertura e il grado di differenziazione di un sistema che lo fa crescere. È la biodiversità che gli consente di reagire alle crisi e trasformarsi in altro. È solo nella dimensione del molteplice che è possibile superare le cerchie di legami forti e predeterminati. La biodiversità delle provenienze, delle competenze, delle cerchie di partenza. Così accade in natura, così accade nelle città. Nessuna monocultura resiste al tempo. Nessuna città è sopravvissuta nel tempo chiudendosi e sperando di rimanere sempre uguale a se stessa.

Ecco allora la necessità di un cambio di schema di gioco. Ci sono città che fronte alla povertà e al degrado, costruiscono scuole, cinema, biblioteche. Città che rispondono alla violenza urbana incrementando le nuove tecnologie, i trasporti, le centralità turistiche. Di fronte alla complessità dei problemi si cercano soluzioni di cambiamento che si discostano dalla norma e dal consueto.

Si cercano rotture di senso, azioni che inneschino altre azioni. Una mediateca digitale in un quartiere povero può alimentare processi virtuosi ben più di una mensa per i poveri, favorendo integrazione e dignità, cambiando abitudini e comportamenti. Libera gli operatori sociali e i progettisti dalle loro ideologie, dai riferimenti certi, e al contempo affranca dagli stereotipi, dai pregiudizi, dalle inerzie dell’assistenzialismo.

Acquisire consapevolezza degli schemi, dei rituali di intervento sociale, dei protocolli delle nostre burocrazie è fondamentale per chi voglia davvero avanzare proposte in grado di modificare efficacemente realtà complesse. Nelle città sta tornando attenzione alla dimensione ambientale, che va dagli orti urbani a progetti di riforestazione più complessi per la mitigazione delle isole di calore.

Sostenibilità ambientale che si coniuga con capacità di immaginazione, come nel caso dell’High Line di New York, dove il progetto è soprattutto capacità di sovversione, capacità di trasformare quella che per tutti era solo una vecchia ferrovia ingombrante, in una delle più grandi attrazioni paesaggistiche newyorkesi.È capacità di fare convivere in armonia le differenze, valorizzare l’energia di una comunità, trasformando le emozioni in comportamenti, il gioco in progetto come nelle piazze che si allagano a Rotterdam o nel termovalorizzatore di Copenaghen sul cui tetto si potrà anche sciare.

Nelle grandi metropoli tornano gli orti urbani e l’agricoltura di prossimità, torna la manifattura e l’artigianato, tornano i piccoli negozi al dettaglio che si affiancano ai grandi magazzini. Anche questa espressione di quella biodiversità costitutiva delle città europee al loro nascere, perfetta sintesi di arti e mestieri, di città e di contrade. L’Europa ha vissuto della propria biodiversità; parla decine di lingue. Occupa da nord a sud e da est a ovest centinaia di ecosistemi differenti. Ha ovunque, in ogni piega del terreno, a ogni angolo di strada, il segno di una battaglia, di una conquista. È un arcipelago di città.

Come scrive Bruno Latour, “guardatele, queste città, e capirete perché dappertutto ci si mette in marcia per avere una possibilità di abitarci – anche solo nelle loro periferie”. Ha mantenuto una campagna prossima alla città, nutrito paesaggi differenti, coltivato amministrazioni secolari. Non ha confini, li ha sempre cambiati. Sostenibilità oggi significa apertura, biodiversità culturale, capacità di connettere natura e cultura.

Dalla rivista Fondazioni: settembre – ottobre 2019