Testimonianza di Roberto Sommella, giornalista
per Fondazioni agosto 2019
Cosa ci manca per def inirci europei? Sicuramente la cittadinanza. La risposta ci arriva dalla storia. Aristotele, con semplicità, diceva: è cittadino chi vive nella città. John Locke stabilì che un cittadino è tale quando cede poteri allo Stato in cambio di servizi. I rivoluzionari francesi accolsero ogni straniero che avesse vissuto almeno un anno nel paese. Jurgen Habermas è invece arrivato a definire lecita persino l’autodeterminazione dei popoli. Nella cittadinanza europea esistono un po’ tutti questi quattro modelli.
È la più bella e al tempo stesso la più complessa, perché manca ancora una Costituzione che ne incardini lo spirito. Reclamiamo il diritto di cittadinanza e al tempo stesso vorremmo estenderlo a chi arriva da altri confini con distinguo e accorgimenti. Ampliamo i confini dell’Unione ma tendiamo a chiuderne le frontiere. Abbiamo raggiunto un benessere diffuso ma oltre cento milioni di persone sono a rischio di esclusione sociale per l’aumento delle disuguaglianze. Il paradosso di questi tempi è plasticamente rappresentato dal caso della Grecia, rimasta nell’euro a dispetto di una cura lacrime e sangue che ne ha abbassato le difese immunitarie per decenni e da quello della Gran Bretagna, che dall’Unione finanziaria ha avuto quasi tutto e ha deciso lo stesso di abbandonarla, chissà come e chissà quando. Eppure, Londra e Atene, insieme a tutti gli altri paesi membri, hanno costruito la pace dopo la guerra. Il percorso è ancora accidentato.
All’interno dell’Unione Europea, dove proliferano stimoli di disaggregazione, non è più la nazionalità d’origine a definire l’identità del cittadino ma la stessa appartenenza allo spazio comune europeo. Non solo le frontiere sono venute meno, vi è stata una cessione di sovranità straordinaria, un processo incredibile che si dà ormai per scontato ma che solo le giovani generazioni hanno direttamente introiettato nel loro Dna. A vent’anni dall’Unione Monetaria e oltre sessanta dal Trattato di Roma il riconoscimento dei diritti non dipende più dallo status di cittadino, basta essere uno dei 500 milioni di abitanti dell’Ue per esercitare una sorta di Ius Soli europeo. Non è però sufficiente. L’Unione Europea vive un’ondata di neonazionalismi ed è stretta in un corridoio di conflitti, tra sovranità e ospitalità. Da una parte, un regime di giustizia cosmopolitica tutela coloro che si trovano all’interno dei suoi confini, dall’altra, si erigono muri per chi vive fuori da essi. La differenza la fa la cittadinanza che non c’è, anche se spesso gli stessi europei non si sentono rappresentati dalle istituzioni comunitarie e riscoprono il fascino pericoloso delle piccole patrie.
La nuova assemblea europea dovrà perciò diventare costituente per sancire f inalmente i diritti degli individui, dopo che per anni sono state garantite le sole istituzioni f inanziarie. Se vuoi la pace, federa gli Stati, sosteneva Kant, prima ancora del Manifesto di Ventotene. Tra guerre commerciali e sovranismi di nuovo conio, il loro monito è di stretta attualità perché il mercato unico e la moneta comune non bastano più. Serve quel passaporto che rechi la scritta: Stati Uniti d’Europa.
Dalla rivista Fondazioni: luglio – agosto 2019