Posto nel cuore del centro storico della città di Fano, Palazzo Bracci Pagani (secc. XVI – XIX) è stato acquisito e completamente restaurato dalla Fondazione Cassa di Risparmio, che lo ha destinato a un uso d’interesse collettivo, com’era nei desiderata dei suoi originari proprietari, Diana Bracci e Arnolfo Pagani, che qui trascorsero la loro vita di affetti e di impegno. Dopo la scomparsa di Arnolfo, Diana decise, infatti, che alla sua morte, avvenuta nel 1924, l’intero patrimonio, davvero ingente, andasse alla Congregazione di Carità di Fano. Impose, però, l’obbligo di istituire una scuola pratica di agraria col nome di “Bracci-Pagani”, riservata a figli di contadini, per onorare la memoria di Pagani, imprenditore agricolo che introdusse innovativi criteri e strumenti di lavoro nel settore. Il legato era costituito da un’azienda agraria di 5 poderi con 5 fabbricati colonici e una villa padronale in località San Cesareo, dal Palazzo di Fano tra corso Matteotti e via Arco d’Augusto, oltre ad attrezzature vinicole, libri, mobili, denaro in contante e crediti vari.
La Scuola d’agricoltura si affermò in campo nazionale, continuando a svolgere i corsi fino agli anni Settanta dello scorso secolo, quando, mutati i tempi e i bisogni, venne chiusa e al suo posto si costituì una comunità terapeutica. Il Palazzo invece, cessato nel 1966 il diritto di usufrutto a vita riservato da Diana alle sue domestiche, ospitò vari uffici comunali, fintanto che le condizioni di progressivo degrado dell’immobile lo consentirono. A quel punto l’Amministrazione decise di venderlo e, coerentemente con la volontà della donatrice di utilizzare il beni a favore della città, lo cedette alla Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, che qui ha istituito un vero e proprio sistema museale.
Il “Sistema Museale di Palazzo Bracci Pagani” è un aggregato di occasioni culturali, che vanno dalla “Saletta Ruggero Ruggeri”, centro di documentazione sul grande attore fanese nato in questo stabile, alla “Biblioteca di Storia dell’Arte e della Ceramica Giancarlo Bojani”, alla “Diana Art Gallery” sede per mostre d’arte moderna d’alto livello, allo “Spazio espositivo Pagani” per rassegne estemporanee, al “Museo di Scienze naturali” di paleontologia e mineralogia e alla “Sala delle Collezioni” numismatiche, archeologiche ed etnografiche, oltre a “La Corte del Nespolo”, uno spazio aperto, per iniziative di relazione, conferenze e dibattiti. L’inaugurazione del Palazzo è avvenuta il 21 maggio scorso, col taglio del nastro da parte del presidente della Fondazione Fabio Tombari, delle autorità e la presenza di un vastissimo pubblico, accolto per l’occasione da una bella mostra, allestita nella “Diana Art Gallery”, con opere di Giuliano Vangi, 25 tra sculture e disegni, che proseguirà fino al 21 agosto.
A presentare l’evento è intervenuto il critico d’arte Philippe Daverio che, riguardo all’artista nato a Barberino di Mugello nel ’31, ha sottolineato come «i suoi disegni sono discendenti talvolta diretti di raffigurazioni parietali romane all’encausto e le facce appaiono con quell’espressività d’allora, quella che rifiutava la citazione greca e le sue perfezioni, disdegnava le eleganze olimpiche, perché era alla spasmodica ricerca della verità vitale».
Anche per Vangi, infatti, non pare essere la grazia lo scopo ultimo delle arti, ma la rivelazione del dramma esistenziale dell’uomo.
«Vangi – ricorda Daverio – vuole costantemente, con determinazione, rimanere vicino alla materia, quella della Mater Matuta, quella delle forze telluriche che hanno generato il marmo che leviga, che taglia, che lascia respirare. E quando afferra la dolcezza, quella del viso della donna, è più il medioevo maturo che lo stimola, è il fiato leggero di Antonello che va a ricercare. In quegli anni della prima rinascenza d’Italia, quando i poeti dal fondo dell’Umbria alle lucentezze della corte federiciana di Sicilia stavano scoprendo la bellezza del patire e la perfezione formale dell’eredità di Bisanzio fu cancellata dalla volontà dell’esprimere, del sentire, del soffrire. E se Petrarca si lamentava della perdita d’una armonia antica che la cristianità aveva sepolto, l’arcigno Alighieri scopriva nel suono dei gemiti il fervore del mondo a venire».