Dalla Romagna, terra dove “la vita ha un forte senso naturalistico”, come scriveva Dino Campana, arriva un’occasione di riflessione sul figurativo nell’arte: una mostra a Imola, fino all’8 marzo, che è una festa per gli occhi. Titolo: “Arte dal Vero. Aspetti della figurazione in Romagna dal 1900 a oggi”.
Le opere esposte si sottraggono alla “tradizione del nuovo per il nuovo”, che ha spinto al paradosso di un’“avanguardia di massa”; suggeriscono, invece, una riconsiderazione e una revisione storiografica profonda dell’arte figurativa, troppo a lungo binario morto per certa critica e per le sue schematizzazioni. La mostra si propone, dichiaratamente, come “un contributo a una più generale inversione di tendenza rispetto alle traiettorie generate dal vizio di base del Moderno: l’allontanarsi da un umanesimo impegnato sul concreto presente e il suo conseguente, algido, rifugiarsi nelle sfere dell’astrazione, in linguaggi formali autoreferenziali, criptici e quasi iniziatici, in enfatici manifesti e in ideologizzati programmi, in goliardiche provocazioni e, in sostanza, in una intolleranza per le esigenze umane”. Allestita nelle due sedi del Centro Polivalente “Gianni Isola” e del Museo di San Domenico, l’esposizione è stata pensata, allestita e finanziata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Imola. Essa propone 180 opere tra pittura, scultura, grafica e ceramica, di 93 artisti, da Domenico Baccarini a Mattia Moreni, da Angelo Biancini ad Alberto Sughi, fino ai contemporanei Bertozzi & Casoni. Intento del curatore Franco Bertoni, sotto la direzione di Andrea Emiliani, è stato quello di mettere in rilievo figure e momenti di un lungo percorso della Romagna artistica, segnata da una singolare e caratterizzante adesione al filone figurativo e verista. Pur messa di fronte alle sollecitazioni delle avanguardie e delle neo-avanguardie, essa ha sotterraneamente coltivato una propria specificità che la contraddistingue, per qualità e quantità degli esempi, da altre aree geografiche e culturali italiane. Le opere, esposte non secondo un criterio cronologico ma valorizzando il confronto tra modernità e contemporaneità, enucleano una sorta di racconto sulla condizione umana: tra documentarismo e finzione, tra vita quotidiana e teatralità, tra ordinario e meraviglioso, tra apparenze e segreti nascosti sotto la superficie. Esse confermano che le arti figurative in Romagna hanno coltivato una concezione dell’arte come un indissolubile nesso tra poesia, visionarietà, alto sentire e precise tecniche espressive, mantenendo un rapporto con la grande tradizione dell’arte, con le sue ricerche estetiche e con il “fatto ad arte”.
All’inizio del secolo scorso Faenza vantava un certo primato di cui sono testimonianza le presenze di Domenico Baccarini, Giuseppe Ugonia, Domenico Rambelli, Ercole Drei, Giovanni Guerrini e Francesco Nonni: tutti artisti destinati a carriere di livello almeno nazionale nei campi della pittura, della scultura e della grafica. Sulla loro scia si formeranno Giovanni Romagnoli e Franco Gen tilini, ma è con Giannetto Malmerendi e Roberto Sella che l’indagine del vero soprassiede a particolari cifre stilistiche per aprire un capitolo non ancora totalmente apprezzato. Uno scultore come Angelo Biancini dimostra, proprio negli anni del regime fascista, una particolare sensibilità nei confronti del reale. E a Forlì si forma una scuola che, dopo Antonello Moroni, vanta i nomi di Pietro Angelini, Giovanni Marchini e Carlo Stanghellini, prima di giungere alla generosità creativa di Maceo Casadei e dei suoi emuli Gino Mandolesi e Gianna Nardi Spada. A Cesena la figura di riferimento, fin quasi alla seconda guerra mondiale, è Gino Barbieri, mentre a Cotignola è attivo in maniera poliforme Luigi Varoli. A Imola c’è Tommaso Della Volpe. Ma anche l’elenco degli artisti romagnoli contemporanei dediti alla figurazione non è avaro. Sono mille i volti e le storie di quella preda sfuggente che è il reale. E gli artisti moderni e contemporanei presentati in mostra, al di là delle diverse connotazioni stilistiche e dei vari periodi storici, sono stati accomunati proprio in base a una dimostrata apertura a vedere quello che non si sospetta di vedere, a scorgere il meraviglioso e il terribile nell’ordinario e nel famigliare, a cogliere l’inaspettato nella quotidianità, a saper sigillare, con i mezzi e le tecniche più idonee, l’istante perfetto: un momento da afferrare e preservare.