Una due giorni tutta dedicata al nuovo welfare, quella che si è svolta il 28 e il 29 novembre a Milano, presso il Centro Congressi Cariplo, a cui fra gli altri ha partecipato il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Enrico Giovannini. Un appuntamento – il secondo organizzato su questo tema da Compagnia di San Paolo e Fondazione Cariplo – che si è aperto con la presentazione del Primo Rapporto sul Secondo Welfare in Italia, curato da Franca Maino e Maurizio Ferrera, entrambi docenti all’Università di Milano, e base per un approfondito dibattito su potenzialità e prospettive dell’intervento privato a sostegno di una maggior tutela degli Italiani dai crescenti rischi sociali. Ne diamo brevemente conto, partendo innanzitutto dalla domanda: che cosa si intende per ‘secondo welfare’? «L’aggettivo ‘secondo’ – spiega Ferrera nella prefazione – ha una duplice connotazione: 1) temporale: si tratta di forme che s’innestano sul tronco del ‘primo’ welfare, quello edificato dallo Stato nel corso del Novecento, soprattutto durante il Trentennio Glorioso 1945-1975; 2) funzionale: il secondo welfare si aggiunge agli schemi del primo, integra le sue lacune, ne stimola la modernizzazione sperimentando nuovi modelli organizzativi, gestionali, finanziari e avventurandosi in sfere di bisogno ancora inesplorate (e in parte inesplorabili) dal pubblico. Soprattutto, il secondo welfare mobilita risorse non pubbliche addizionali, messe a disposizione da una vasta gamma di attori economici e sociali». Fra questi si possono annoverare: assicurazioni private e fondi di categoria, Fondazioni di origine bancaria e altri soggetti filantropici, il sistema delle imprese e gli stessi sindacati, associazioni ed enti locali, anche per il tramite di eventuali imposte di scopo, e gli stessi utenti, attraverso sistemi di compartecipazione alla spesa sociale pubblica, con ticket o contributi delle famiglie (è pari al 16% del totale in media Ocse, ma a meno del 4% in Italia). «Il settore forse più emblematico in cui si sono già sviluppate in Europa molte forme di secondo welfare – segnala Ferrera – è quello dei servizi alle persone. A seguito dell’aumento della popolazione anziana e dell’occupazione femminile, è rapidamente cresciuto in molti paesi un nuovo ‘terziario sociale’ per soddisfare bisogni e domande non coperte dal primo welfare nel campo della salute, dell’assistenza, dell’istruzione, delle attività culturali, ricreative, e, più in generale, della ‘facilitazione della vita quotidiana’. I soggetti che operano in questi campi variano dalle micro-imprese giovanili alle emergenti multinazionali dei servizi, pronte a investire capitali (due terzi degli asili olandesi sono oggi gestiti da una grande società inglese). Un ruolo di primo piano è svolto dagli enti filantropici e dalle fondazioni non profit, che non solo forniscono risorse, ma fungono da motore propulsivo in termini di organizzazione, networking, sperimentazione. In Francia e Gran Bretagna gli addetti del terziario sociale sono stimabili in quasi cinque milioni di unità, in Italia sono meno di tre (dati Eurostat)». Dunque gli spazi di crescita in Italia sono considerevoli! A differenza di altri paesi, la nostra spesa sociale privata è rimasta quasi ferma nell’ultimo decennio. Secondo l’Ocse è pari al 2,1% del Pil, al di sotto di Svezia (2,8%), Francia e Germania (3), Belgio (4,5), per non parlare di Regno Unito (7,1) e Olanda (8,3%). In altre parole, sussistono margini di espansione che in Italia potrebbero far affluire verso la sfera del welfare risorse pari a diversi miliardi (un punto di Pil da noi vale quasi venti miliardi di euro). «Si tenga anche presente – sottolinea Ferrera – che, a dispetto della crisi, le famiglie italiane continuano a risparmiare… Inoltre resta elevata la diffusione della proprietà immobiliare: fra gli anziani, circa l’80% possiede la casa d’abitazione (65 in Francia, 55 in Germania)… È chiaro che se si riuscisse a orientare almeno parte di queste risorse verso il nuovo terziario sociale, i vantaggi sarebbero molteplici: si stimolerebbe la crescita, si favorirebbe l’occupazione, le famiglie verrebbero alleggerite da un carico di prestazioni ‘fai da te’ che le fa funzionare male e penalizza gravemente le donne, soprattutto quando ci sono figli o anziani fragili. Si potrebbe, in altre parole, neutralizzare almeno in parte le molte trappole del ‘familismo’, il quale si riproduce nel tempo (in una sorta di circolo vizioso) anche per la scarsa disponibilità di alternative alla produzione e al consumo di servizi all’interno della famiglia. È vero che in questo modo si intaccherebbe, almeno inizialmente, il risparmio. Ma nel medio periodo aumenterebbero i percettori di reddito, soprattutto fra i giovani, con effetti benefici in termini di benessere per tutti». La via del secondo welfare – sostiene Ferrera – è la più promettente al fine di attivare questo circolo virtuoso. E se una delle prime sfide è quella di mobilitare il risparmio, allora un ruolo di primo piano spetta alle assicurazioni, che dovrebbero impegnarsi per introdurre nuovi strumenti capaci di attirare il risparmio verso impieghi ‘di servizio’. Le inchieste d’opinione – aggiunge – segnalano che se ci fosse un’offerta innovativa e vantaggiosa di prodotti assicurativi (in forma privata o mutualistica), molti risparmiatori sarebbero interessati a investire in questa direzione (il 34,7% vorrebbe avere un’assicurazione sulla malattia, il 33,6 un’assicurazione contro gli infortuni e la disabilità, il 33,4 una polizza per il caso di longterm care; alla traduzione in pratica di tali scelte oggi osta certamente la compressione dei redditi, ma ostano anche ragioni di ordine culturale-istituzionale, nonché probabilmente la mancanza di strumenti ‘mirati’ (Fonte Indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani, Centro Einaudi-Isp, 2013). In Francia l’introduzione di incentivi fiscali e voucher per l’acquisto di servizi ha originato una vera e propria ondata di nuovi consumi nel ‘terziario personale e familiare’ che vale almeno un punto di Pil aggiuntivo all’anno e che ha creato dal 2006 quasi mezzo milione di posti di lavoro. «Certo – afferma Ferrera – i giovani italiani non potrebbero permettersi di acquistare polizze private. Ma i loro genitori o i loro nonni sì, soprattutto quelli che posseggono una casa. In Svezia uno dei soggetti che intermedia i nuovi schemi privati di protezione del reddito è l’associazione dei proprietari di abitazioni. Non sarebbe male se, invece di tenere i figli con sé fino a trenta o quarant’anni, le famiglie italiane sfruttassero il loro patrimonio immobiliare per ‘assicurare’ l’uscita di casa dei giovani, spingendoli a giocare, con una polizza in tasca, tutte le scommesse della flessibilità. Sul versante del risparmio privato – afferma – anche le banche possono ovviamente dare un importante contributo, ispirandosi soprattutto alle esperienze anglosassoni di ‘finanza sociale’ (social bonds e social impact bonds)… Il Terzo Settore è un altro soggetto di primaria importanza per far decollare in Italia il secondo welfare. La tradizione mutualistico- cooperativa italiana è forte e presenta tratti di originalità ed eccellenza sul piano comparato. Occorre tuttavia un salto di qualità e le Fondazioni di origine bancaria (altra particolarità italiana) costituiscono l’unico attore che possiede la massa critica adeguata per promuovere questo salto, in termini sia finanziari che organizzativi. Le erogazioni delle Fondazioni già sostengono una molteplicità di interventi nei territori molto spesso finalizzati a rispondere ai nuovi rischi – osserva –. Più in generale, le Fondazioni svolgono un prezioso ruolo di broker all’interno delle società civili locali, di stimolo e sostegno all’innovazione sociale. Le Fondazioni sono dunque oggi – sostiene Ferrera – candidati ideali per diventare i catalizzatori di una virtuosa ‘strutturazione originaria’ del secondo welfare, sia al suo interno, sia in termini di rapporti con il primo welfare». Un altro soggetto sempre più attivo in Europa sul fronte del secondo welfare sono le (grandi) imprese. Secondo stime Ocse le prestazioni ‘non obbligatorie’ erogate dalle imprese rappresentano oggi circa il 14% della spesa sociale complessiva in Gran Bretagna, circa il 7% in Francia, Germania e Svezia. In Italia le spese sociali non obbligatorie a carico del sistema delle imprese sono meno di un decimo di quelle tedesche o francesi e il loro potenziale potrebbe essere incoraggiato, ad esempio sul piano degli incentivi fiscali e contrattuali. «Ci sono però rischi di differenziazioni e iniquità collegati allo sviluppo di queste esperienze, soprattutto nell’Europa meridionale. Dunque – raccomanda Ferrera – un maggiore attivismo di imprese (e sindacati) nell’ambito del welfare italiano è sicuramente auspicabile, ma dovrà tener conto del pericolo di esasperare segmentazioni e disparità oltre soglie di funzionalità economico-sociale e accettabilità politica”.