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Le sfide di un nuovo welfare

In un momento in cui il tema della necessità di ridurre la pressione fiscale sulle imprese e sulle famiglie per rilanciare l’economia produttiva trova virtuali consensi nella pluralità dei partiti, una consapevolezza, anzi una preoccupazione, ancor più condivisa è che l’individuazione delle spese da tagliare risulti particolarmente problematica e dirimente in merito alla possibilità dell’attuale Governo di reggere a lungo. La riduzione delle entrate tributarie rischia, infatti, di compromettere ulteriormente la capienza delle risorse da dedicare a un welfare che è già da tempo in difficoltà e la soluzione del problema richiederà generosità politica e tempi adeguati. L’attualità dell’argomento ha attratto un folto pubblico al convegno dal titolo “Un’impresa comune. Riprogettare il welfare”, organizzato il 6 maggio a Torino da Compagnia di San Paolo e Fondazione Cariplo. La scelta di riprogettare il welfare è ormai necessaria, non solo per ragioni di costo, stante la difficile situazione del bilancio pubblico del Paese, ma soprattutto per rendere il sistema dei servizi sociali più adeguato alle nuove sfide che l’Italia deve affrontare. Dal convegno è emerso che i “rischi sociali” a cui il sistema di welfare tenta di rispondere sono molto cambiati negli ultimi vent’anni. L’invecchiamento della popolazione, la caduta della natalità, la crescita – seppure ancora insufficiente – della partecipazione femminile al mondo produttivo, l’impatto della globalizzazione sul mercato del lavoro, la forte immigrazione: sono tutti fattori che hanno contribuito a cambiare le condizioni di rischio sociale, senza che il sistema di welfare pubblico abbia ancora prodotto risposte adeguate. In particolare, gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno messo in evidenza l’insufficienza degli strumenti di lotta alla povertà, stante la scarsa incisività dei trasferimenti monetari non previdenziali, modesti nell’ammontare, erogati a pioggia e con ampi margini di discrezionalità, spesso senza progetti di accompagnamento all’autonomia. «Proprio la crisi – ha sottolineato Giuseppe Guzzetti, presidente di Fondazione Cariplo e dell’Acri – ha mostrato i possibili effetti distorsivi degli strumenti di protezione sul mercato del lavoro (cig, etc.). Essi tendono a proteggere i posti di lavoro anche quando non ha più senso difenderli, impedendo così una più rapida riconversione del sistema produttivo e sottraendo risorse a possibili misure di protezione dei redditi, specie dei soggetti, come i giovani, che faticano ad entrare nel mercato del lavoro e pertanto rischiano di restare privi di ogni protezione. Sono allora necessarie misure che favoriscano una ricalibratura del sistema, re-indirizzino i finanziamenti verso i nuovi rischi sociali (la povertà, la disoccupazione, la non-autonomia) e mobilitino tutte le risorse disponibili del Paese, in primo luogo quelle delle singole persone, così da metterle in grado di guadagnare il massimo di autonomia possibile». È questo il tema del cosiddetto “empowerment”, come ha ben sottolineato Sergio Chiamparino, presidente della Compagnia di San Paolo. «Sono necessarie politiche che investano sulle persone – ha dichiarato – . Questo vuol dire cambiare il paradigma di riferimento, che fa ruotare tutto solo intorno al lavoro. Le maggiori difficoltà, invece, le incontrano proprio coloro che il lavoro non ce l’hanno. Bisogna dunque uscire da un approccio assistenzialistico che chiude il welfare entro i meri confini della tutela, riconciliando gli obiettivi dell’uguaglianza sociale con quelli dello sviluppo; e questo è possibile solo riportando al centro la persona, che è il fattore produttivo fondamentale nell’Europa del XXI secolo!». La personalizzazione dei servizi è, perciò, una delle caratteristiche del nuovo welfare, che ha due sfide da affrontare: lavorare sull’efficienza dei meccanismi di produzione dei servizi, così da contenerne il più possibile i costi, e misurare l’efficacia delle prestazioni in termini di risultati concreti raggiunti. Ma una sfida importante è anche quella dell’integrazione degli attori e dei finanziamenti. Infatti la spesa privata in campo sociale (che già c’è, basti pensare al fenomeno delle badanti/assistenti familiari) è male organizzata e spesso poco efficace. Sono spesso dispersi anche gli interventi che oggi vengono chiamati di “secondo welfare” (dal welfare aziendale, al neo-mutualismo sino alla filantropia e al terzo settore) che pure potrebbero rappresentare una risorsa importante per integrare le prestazioni pubbliche e – soprattutto – per modularle adeguatamente a livello locale in un sistema plurale di welfare territoriale. Da questo punto di vista – è emerso dai vari interventi della giornata – una collaborazione più proficua tra sistema a finanziamento pubblico e attori privati è non solo auspicabile ma necessaria, per evitare di limitarsi a utilizzare il terzo settore per abbassare i costi delle prestazioni pubbliche, senza coglierne invece il potenziale di innovazione, e per contenere i problemi di iniquità impliciti nel welfare aziendale, per definizione limitato a pochi soggetti destinatari. Allo stesso tempo non bisogna illudersi che la vivacità e la buona volontà dal basso, o la spesa privatistica delle famiglie, possano o debbano sostituire integralmente l’intervento pubblico, le sue idealità di generalità d’accesso ed equità e la disponibilità di risorse che solo lo Stato può assicurare. «Siamo consapevoli che la sfida è alta, ma è una sfida alla portata del Paese – ha affermato Guzzetti – perché molte risorse sono già mobilitate in quella direzione». Le Fondazioni di origine bancaria sono parte di questo sistema integrato. Per ragioni di risorse e di legittimazione, non sono la risposta alle nuove sfide del welfare; possono però contribuire aiutando l’innovazione, permettendo sperimentazioni, costruendo cultura tecnica e amministrativa, favorendo le reti. Come? Tre sfide paiono cruciali per un nuovo welfare. La prima riguarda l’integrazione dei giovani nel sistema sociale ed economico. Si tratta di una sfida che passa innanzitutto dal miglioramento della qualità del nostro sistema di istruzione e di formazione del capitale umano, ancora caratterizzato da elevati tassi di abbandono scolastico, da scarsi livelli di apprendimento e da una modesta percentuale di laureati. Solo accrescendo la qualità del capitale umano italiano la ripresa potrà ripartire. Su questo fronte le Fondazioni sono fortemente impegnate e ancora di più lo saranno in futuro. La seconda sfida è quella di coniugare principi generali validi per l’intero territorio nazionale e specificità locali, in una declinazione che sappia valorizzare le diverse risorse presenti nei territori. Anche in questo caso, le Fondazioni – forti della loro attitudine a catalizzare soggetti ed esperienze – possono svolgere un ruolo importante. Infine, la terza sfida è quella dell’adozione di logiche graduali e sperimentali, che sappiano partire da esperienze promettenti di cui si possano valutare con precisione pregi e difetti e – solo quando i primi superino i secondi – divengano applicabili su scala più ampia. Anche qui le Fondazioni, forti della loro maggiore flessibilità rispetto all’ente pubblico, possono giocare un ruolo importante nel definire e attuare una “filiera delle politiche” in campo sociale, in maniera complementare ad altri soggetti pubblici e privati.  

da “Fondazioni” maggio-giugno 2013