Skip to main content

Arte e cultura: intervista a Marco Cammelli

A poco più di un anno dalla presentazione di “r’accolte”, il catalogo multimediale delle opere d’arte delle Fondazioni di origine bancaria (oggi ne annovera oltre 10mila) e alla vigilia della presentazione dei vincitori della seconda edizione di fUnder35, il bando che ogni anno mette a disposizione delle imprese culturali giovanili un milione di euro per favorirne lo sviluppo e il consolidamento, facciamo il punto sulle prospettive del settore artistico-culturale in Italia e il ruolo delle Fondazioni di origine bancaria con Marco Cammelli, il presidente della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna che guida con appassionato impegno e lungimiranza la Commissione Acri per i Beni e le Attività Culturali.

Presidente, dati recenti, riportati nell’annuale Rapporto sulla cultura firmato da Unioncamere e Fondazione Symbola, paiono dimostrare che il settore produttivo culturale italiano stia reagendo alla crisi meglio di altri e sia un importantissimo attivatore della nostra economia nel suo complesso. Peraltro, a fronte di una consapevolezza che è ormai diventata opinione comune, non sembra certo che nei fatti la risorsa “cultura” sia considerata appieno. In primis in termini di tutela e conservazione, in secondo luogo quale volano produttivo. Che cosa si può fare di meglio e di più?

I problemi del nostro patrimonio culturale sono cronici, ma in questi ultimi tempi si sono acutizzati. Per cui mi pare che alle profonde innovazioni funzionali e strutturali di medio periodo bisogna si affianchino misure immediate: una vera e propria terapia d’urto. La ragione è dovuta al serio aggravamento delle condizioni complessive del sistema a causa degli effetti generati dalle politiche di questi anni: il taglio delle risorse, la “deriva” delle burocrazie tecniche e amministrative, il combinato di inerzie politico-amministrative, da un lato, e di sovrapposizioni e conflitti positivi e negativi di competenze, dall’altro. A ciò si aggiungono altri fattori di declino quali il completo abbandono non solo della programmazione ma della semplice prevedibilità, l’estrema difficoltà dell’azione ordinaria e il venir meno della già esigua manutenzione dei nostri beni immobili, la dissolvenza della memoria storica e dei saperi tecnicoamministrativi, perduti per il blocco del turn-over del personale e l’estendersi di rapporti precari, il progressivo trasferimento a carico del sistema dei beni culturali degli oneri relativi a edifici già destinati alle comunità ecclesiastiche e a culto e oggi inutilizzati ed esposti, per l’abbandono, a seri rischi di deterioramento, spoliazioni o veri e propri saccheggi. Tutto ciò si somma agli effetti ormai evidenti di dinamiche maturate in passato. Da aspetti specifici, come il pensionamento nei prossimi mesi del 90% del personale degli archivi di Stato, frutto attuale dei reclutamenti di massa operati negli anni Settanta, a profili molto più generali, come la grave delegittimazione non solo del Mibact ma delle politiche e delle misure di tutela, a causa dell’azione combinata di tre fattori dagli effetti paralizzanti: costante estensione della regolazione, operatività quotidiana al minimo, erraticità degli interventi e della loro impostazione.   

Quali le proposte per uscire da quest’impasse?

Cominciamo da quelle collocate nel medio periodo. Sono raggruppabili in alcune aree, delle quali oltre i contenuti va sottolineata la sequenza: il fatto cioè di muovere dalle funzioni e dagli interessi pubblici che vanno garantiti e passare poi, e solo poi, ai profili strutturali e organizzativi, alle normative e agli strumenti di applicazione. Quanto, poi, alle policies, i passi sono tre. Innanzitutto si tratta di ridefinire le basi della tutela, nel senso di conservazione preventiva e programmata del patrimonio storico-artistico in rapporto all’ambiente. Il che richiede di affrontare di petto il primo ineludibile passo, quello della conoscenza e della identificazione del patrimonio stesso – e cioè la catalogazione – nell’unico modo che l’urgenza, il buon senso e soprattutto l’effettiva operatività suggeriscono: quello della distinzione tra una prima scheda di inventariazione-identificazione (basata su foto digitale e un numero ridotto di elementi essenziali), da compilare in modo generalizzato e nel tempo più breve possibile, e una seconda scheda più articolata, mirata alle esigenze della conservazione. In questo modo, una volta acquisite le conoscenze minime – tuttora in larga parte mancanti – relative alla identificazione del nostro patrimonio culturale, si apre la strada non solo alla messa a regime delle attività “ordinarie” cominciando dalla (ordinaria, appunto) manutenzione, ma anche alla “cucitura” del bene e dell’opera con il contesto (incluso il paesaggio) basato sulla combinazione di attività svolte nei sistemi territoriali (in prospettiva, le c.d. “storie locali”) e di quelle di studio e di formazione superiore assicurate dal ruolo, da ridefinire, degli Istituti centrali di catalogazione, del restauro, e altro. Su queste basi, si può poi passare dal rigido e indifferenziato regime di tutela attualmente vigente a quell’articolazione che viene indicata come “doppio cerchio”, ovvero che ammette disposizioni sulla mobilità dei beni differenziate o differenziabili, con modalità di gestione, forme di regolazione (comprese quelle contrattuali), procedure, durata delle concessioni o prestiti di lungo periodo (questione depositi di musei), per il cerchio più largo: quello cioè dove l’intreccio tra le esigenze di conservazione e valorizzazione non solo è di diversa intensità e di diverso reciproco rapporto, ma dove diverso è anche il modo di correlarsi agli altri interessi pubblici e/o privati in gioco.

Quale, dunque, il ruolo per i privati in questo contesto?

Se accettiamo la proposta del “doppio cerchio”, che può avere concreta applicazione per conservazione, fruizione, circolazione dei beni culturali, possiamo davvero porre mano a un’apertura, non solo su scala nazionale, ad altri soggetti pubblici e ai privati in tutte le loro specificazioni: privati imprese, privati associazioni, privati fondazioni con forme di cooperazione, anche di lungo periodo, riguardanti in particolare siti archeologici, musei, edifici e complessi del patrimonio ecclesiastico. Cioè quelli per i quali è più urgente favorire modalità di cooperazione credibili e sostenibili. Ed è opportuno chiarire che la valorizzazione del patrimonio culturale va considerata non una possibilità subordinata alla disponibilità di risorse, ma un preciso dovere a prescindere che, innanzitutto, implica un regime particolare delle risorse pubbliche destinate a tali compiti, in modo da garantirne la stabilità anche in deroga alle normative e agli interventi di carattere generale sull’area pubblica (sottrazione tagli lineari, patto di stabilità, ecc.).

Estenderebbe questi criteri anche alla tutela del paesaggio?

Sì, perché anche qui l’arte del distinguere aiuta e permetterebbe microinterventi di significativa portata. In tema di valorizzazione paesaggistica, ad esempio, si potrebbe pensare di mettere in cantiere, con tutti i dovuti approfondimenti necessari, una legge sulle successioni bloccate da non conoscenza, irreperibilità o inerzia degli aventi causa, con l’intento di superare gli effetti negativi delle eredità plurime in borghi, edifici, aree di interesse storico, artistico, paesaggistico. Siamo ormai, in molti casi, all’ultima chiamata, e proprio per questo andrebbe perseguito l’obiettivo di riuscire a identificare un interlocutore preciso cui proporre (per il recupero e la valorizzazione del bene) la scelta entro un tempo determinato tra due soluzioni: quella di provvedere direttamente all’arresto del degrado e, meglio ancora, alla valorizzazione del bene (il che dovrà essere accompagnato da agevolazioni fiscali o creditizie per i lavori da svolgere) o, in alternativa, l’obbligo di trasferire in mano ad altri proprietà (con indennizzo) o gestione, per un periodo di tempo determinato, se alla fine della procedura l’interlocutore non è stato individuato, o se la risposta manca o non è positiva.

Presidente, riguardo alle Fondazioni di origine bancaria, cosa fanno e che cosa potrebbero fare di più nel campo dell’arte e della cultura?

In un quadro che è, a dir poco, allarmante, le Fondazioni hanno dovuto ridefinire necessariamente le proprie linee strategiche a favore dell’arte e della cultura, contemperando l’esigenza di accrescere l’incisività del loro intervento nel settore – a cui nel 2012 hanno erogato oltre 300 milioni di euro – con la necessità di presidiare in misura crescente altri comparti di particolare emergenza sociale. Così, insieme a una sempre più rigorosa selezione dei progetti da sostenere, le Fon – dazioni hanno ulteriormente sviluppato le sinergie con gli altri attori del territorio, soprattutto in funzione dello sviluppo economico, culturale e sociale delle comunità di riferimento. Qui svol gono spesso un ruolo di catalizzatore di progetto, con forme di intervento caratterizzate dal controllo strategico e operativo in capo alla Fondazione stessa quali la progettazione diretta, i bandi strutturati, le società strumentali o fondazioni ad hoc. Nei programmi culturali dell’area territoriale di riferimento le Fon – dazioni rappresentano una leva moltiplicatrice di risorse e di conoscenza e il loro intervento si sviluppa lungo diverse direttrici: dalla tutela e conservazione dei beni storico- artistici alla realizzazione di interventi capaci di favorire lo sviluppo turistico; dal sostegno ad attività artistiche tese per lo più a dare impulso alla creatività giovanile all’ideazione di sistemi culturali innovativi in grado di offrire opportunità occupazionali, in particolare alle nuove generazioni: ne sono un esempio i distretti culturali, che consentono la salvaguardia e l’implementazione di attività artistico-artigianali tipiche del territorio. Viene, inoltre, privilegiato il sostegno a iniziative e istituzioni di eccellenza che favoriscono la formazione, la ricerca e la produzione culturale giovanile, di cui fUnder35 è un caso esemplare. Voglio poi ricordare che le Fondazioni hanno esse stesse un patrimonio culturale importante, che abbiamo censito e reso fruibile al vasto pubblico di Internet grazie al catalogo multimediale “r’accolte” (online all’indirizzo raccolte.acri.it). Esso accoglie 65 collezioni di 55 Fondazioni, per un totale di oltre 10mila opere: 5.949 dipinti, 724 sculture, 1.692 disegni, 1.057 ceramiche, 116 arredi e suppellettili, 444 stampe, 210 monete, 425 opere di arte contemporanea (installazioni e foto) e 10 strumenti musicali. Di recente questo catalogo è stato fornito, per le Fondazioni che vogliano adottarlo, di uno strumento di gestione – DBArte – il quale consente di sistematizzare in formato elettronico l’insieme dei dati “sensibili” relativi allo stato biografico delle opere d’arte. I parametri già previsti nella scheda di catalogazione di “r’accolte” sono stati, infatti, integrati con altre informazioni di carattere amministrativo e gestionale, riservate per ciascuna Fondazione, come i dati relativi all’acquisizione, al restauro, alle valutazioni (stime, perizie, expertise), alle polizze assicurative, ai provvedimenti di tutela, alla documentazione fotografica e bibliografica, e quelli riguardanti prestiti e partecipazioni ad esposizioni e altre rassegne, che permettono alla Fondazione di avere un quadro sempre aggiornato sullo stato patrimoniale dei propri beni artistici schedati. Con ricadute positive non solo per la Fondazione, ma per l’affermarsi di quella cultura dell’informazione trasparente, completa e aggiornata sul patrimonio artistico di questo Paese che, come ho detto sopra, è condizione imprescindibile per la tutela e la valorizzazione.

da “Fondazioni” gennaio-febbraio 2014